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Riparare è un diritto

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I movimenti ambientalisti hanno tra le loro priorità anche quella di rendere gli smartphone riparabili. Questo consentirebbe di ridurne l’impatto sul clima. Vediamo come.
Riparare è un diritto
Chi «mastica» un po’ di telefonini sa che sono sempre un blocco unico e non è possibile sostituire i singoli pezzi. Tantomeno è possibile ripararli o aggiornarli. È un guaio grosso, perché questo ostacola le persone di buona volontà nel loro intento di far durare il cellulare nel tempo. È stato calcolato che prolungare la durata di vita degli smartphone e di altri dispositivi elettronici di un solo anno consentirebbe all’Ue di non immettere in atmosfera una quantità di anidride carbonica equivalente a quella emessa da 2 milioni di automobili ogni anno, secondo uno studio pubblicato dall’European environmental bureau (Eeb)1.
Cifre tanto elevate sono dovute alla grande quantità di energia e risorse necessarie alla produzione e distribuzione di nuovi prodotti, e allo smaltimento di quelli vecchi. L’impatto della fase di produzione sul clima è trascurato dalla politica, ma è spesso quello maggiore.
La durata media di uno smartphone in Europa è di tre anni, ma gli esperti ritengono che potrebbe durare anche il doppio, offrendo prestazioni più che dignitose. Il ciclo di vita degli smartphone europei è responsabile di 14 milioni di tonnellate di emissioni (CO2eq) ogni anno, che è più dell’intero ammontare delle emissioni di CO2 della Lettonia nel 2017.

Tra inquinamento e sprechi

Per tutti questi motivi, la riparabilità degli smartphone è una priorità di alcuni movimenti ambientalisti dell’Unione europea. La campagna per il diritto alla riparazione Right to Repair2, per esempio, mira a contrastare l’obsolescenza programmata, la pratica in base alla quale i prodotti sono mal progettati, impossibili o troppo costosi da riparare e vengono sostituiti prematuramente. Le Ong sono riuscite a spingere per una regolamentazione a livello Ue volta a estendere la durata di vita di un piccolo gruppo di prodotti, tra cui televisori, frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie e prodotti per l’illuminazione.
A partire dal 2021, i produttori dovranno garantire che questi prodotti possano essere facilmente smontati e dovranno mettere parti di ricambio e informazioni di riparazione a disposizione dei tecnici professionisti. Purtroppo, in questa lista non ci sono gli smartphone. Per questo, Right to Repair ha lanciato una petizione per estendere il diritto di riparazione ai telefonini3.
L’industria, come è facile intuire, dà l’impressione di remare con vigore in direzione contraria. Le batterie degli smartphone sono diventate praticamente non sostituibili, incollate saldamente al telefonino, e collegate con connettori che richiedono abilità eccelse per essere smontati senza danni. I componenti sono per lo più saldati e quindi non possono essere disassemblati. Anche la semplice operazione di aperura del coperchio posteriore è ormai appannaggio di pochi, testardi smanettoni.

C’è già un esempio virtuoso

Una piccola crepa in questo muro di obsolescenza programmata è Fairphone, il produttore di smartphone sostenibili, che da un po’ di anni cerca di realizzare dispositivi riparabili, utilizzando materiali di provenienza responsabile. In questi giorni, è uscito l’ultimo modello, il Fairphone 3 Plus. Come tradizione, sono state messe in commercio anche le nuove fotocamere, che rappresentano sostanzialmente l’innovazione del nuovo modello. In pratica, chi è in possesso del telefono dell’anno scorso, può acquistare le sole fotocamere e installarle nel suo vecchio telefono, ottenendo di fatto il modello nuovo. Non si tratta certo di prodotti economici: 500 euro per un apparecchio non sono certo pochi. Ma, pur mantenendo la logica aziendale di aggiornare costantemente l’offerta, Fairphone sta mostrando che produrre telefoni riparabili si può e si deve.
 
Michele Bottari è esperto di tecnologia ed economia. Scrive su Terra Nuova e sui blog veramente.org e riusa.eu. È autore del libro Come sopravvivere all’era digitale (Terra Nuova Edizioni).
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Articolo tratto dalla rubrica #Ecologia informatica

Leggi la rubrica sul mensile Terra Nuova Novembre 2020
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