Quando si parla di ecotessuti viene spontaneo pensare a materiali composti in gran parte da elementi naturali, come piante e scarti agricoli o ricavati dal recupero di fibre tessili rigenerate o riciclate, in cui la mano dell’uomo certamente interviene, ma solo per aiutare e condurre il processo di trasformazione per ottenere il nuovo tessuto. Dal filato ricavato dalle reti da pesca recuperate in mare al tessuto ottenuto dalle bucce di arancia, alla pelle che deriva dall’ananas, solo per citarne alcuni, si tratta di materiali ottenuti da materie prime preesistenti e di origine spesso naturale.
Ma c’è un’altra tipologia di ecotessuti creati ex novo in laboratorio da ricercatori che si ispirano a un approccio metodologico simile a quello del settore medico-scientifico, basato su: studio, prove, sviluppo e risultato. In realtà, anche qui il punto di partenza è il mondo naturale, ma come oggetto di osservazione di determinati processi poi riproducibili tra le pareti di aziende all’avanguardia nella produzione di materiali alternativi. Una di queste è la Bolt Threads, la compagnia californiana che studia i microrganismi per poterli ricreare in laboratorio e ottenere da essi nuove fibre.
La tela del ragno
David Breslauer, direttore scientifico e co-fondatore della Bolt Threads, ha portato in azienda la propria esperienza di ricercatore nel campo della microfluidica a Berkeley. Allora studiavano il dna dei ragni e come producessero le loro tele, piccoli capolavori di ingegneria che altro non sono se non catene di proteine. La tela del ragno è una seta molto elastica, morbida e resistente, che in passato veniva ad esempio usata dagli abitanti della Polinesia per le canne da pesca e nelle Nuove Ebridi come reti per trasportare le punte delle lance. L’intenzione di Breslauer era di capire il meccanismo di produzione di questa seta super efficiente per replicarlo in laboratorio.
Il risultato è stato ottenuto ricreando con la bioingegneria proteine simili, poi iniettate in un composto di lievito, acqua e zucchero sottoposto a un processo di fermentazione brevettato. La seta liquida risultante è stata poi trasformata in una fibra attraverso un processo di filatura a umido che ha permesso di ottenere filati poi lavorati a maglia nel tessuto. La prima designer a utilizzare Microsilk, così è stata battezzata la seta prodotta in laboratorio, è stata Stella McCartney, che ha avviato con l’azienda americana una collaborazione a lungo termine. Certo, si tratta di un materiale ancora in fase di sviluppo, quindi la produzione iniziale continua a essere limitata e i prodotti finiti costosi.
Ma come con qualsiasi nuova tecnologia, alle prime fasi seguono perfezionamenti e risultati che permettono di abbassare i costi e rendere i prodotti più accessibili. La Bolt Threads ha la paternità anche di Mylo, ecopelle ricavata da cellule di micelio, il corpo vegetativo alla base della formazione dei funghi.
Puro come in natura
Si basano sulla fermentazione fungina anche i materiali Pura, attualmente in sviluppo all’interno dell’omonima unità R&G della Mogu, azienda tutta italiana con sede a Inarzo (Varese), fondata nel 2015 e guidata dai due principali soci fondatori: Stefano Babbini, imprenditore con esperienza in biomasse e in bioenergia, e una passione per i nuovi materiali e l’economia circolare, e Maurizio Montalti, designer e ricercatore italiano di base ad Amsterdam, che da oltre dieci anni lavora allo sviluppo di processi e materiali derivanti dalla crescita di microrganismi, anche grazie a collaborazioni accademiche in Olanda.
Attraverso protocolli dedicati e interni all’azienda, vengono fatti crescere ceppi fungini selezionati su terreni nutritivi risultanti da risorse residue che derivano da altri processi produttivi e/o altre filiere come paglia, segatura, bucce di pomodoro, fondi di caffè, valorizzando così anche tali risorse in un’ottica completamente circolare. Il fungo/micelio, grazie alle proprie dinamiche di crescita biologica, trasforma la biomassa vegetale organica in altri elementi, quali polisaccaridi e specialmente chitina, che diventa il costituente principale alla base del materiale finito. Dopo il tempo di crescita necessario (che varia a seconda dei differenti processi, fra dieci e venti giorni), i materiali vengono raccolti, asciugati e ulteriormente raffinati attraverso processi di natura chimica (organica) e meccanica.
Simili alla pelle di origine animale dal punto di vista delle proprietà sensoriali e meccaniche, i materiali Pura hanno diversi vantaggi, tra cui: la necessità estremamente limitata di risorse nutritive e acqua; la crescita in verticale, che riduce in maniera significativa il consumo di suolo; nessuna uccisione e nessun sfruttamento di animali; eliminazione delle sostanze tossiche (utilizzate invece per la concia delle pelli animali); omogeneità dei materiali, che elimina il concetto di scarto (solitamente una pelle animale viene utilizzata per il 30% a causa di imperfezioni sulla superficie restante); possibilità di ingegnerizzare/funzionalizzare i materiali influenzandone le proprietà fisicomeccaniche partendo dalla biologia.
Come dicevamo, i materiali Pura sono ancora in fase di sviluppo, quindi a ora non sono ancora disponibili a livello commerciale, ma l’ambizione è che lo diventino molto presto, probabilmente già nel 2021, poiché il percorso è giunto a un livello tecnologico molto avanzato.
Dall’alga alla fibra
Dalla terra all’acqua, dai funghi alle alghe marine con AlgiKnit, un altro biomateriale prodotto dalla compagnia americana omonima, che lavora nella produzione tessile integrando scienza e design per affrontare il danno ecologico causato dall’industria della moda. AlgiKnit sta creando filati resistenti ma rapidamente degradabili concentrandosi soprattutto su alcuni tipi di alga, come il fuco, la macro-alga bruna marina, facilmente coltivabile nelle acque costiere, soprattutto dell’emisfero settentrionale. La trasformazione in filato, adatto per calzature, accessori, interni e abbigliamento, avviene in laboratorio ed è, come segnalato nel sito internet dell’azienda, in costante sviluppo.
Proviene dalle alghe, per l’esattezza dall’ecosistema marino dei fiordi islandesi, anche Seacell, fibra dalla morbidezza serica prodotta negli stabilimenti dell’austriaca Lenzing AG per la tedesca Smartfiber AG. La Lenzing produce anche viscosa sostenibile ma, mentre in quest’ultimo caso la compagnia sta operando per arrivare a un sistema di produzione a ciclo chiuso entro il 2022, con Seacell il sistema è già completamente chiuso, con la cellulosa che viene sciolta in un solvente azotato e portata in forma di fibra. Nessuna sostanza chimica è smaltita come rifiuto e il materiale ottenuto è costituito da una materia prima biogenica che rispetta l’ambiente, fa risparmiare risorse ed è biodegradabile al 100%.
Che si tratti quindi di ragnatele, funghi, batteri, alghe o lieviti, ingegnerizzare le proprietà delle materie presenti in natura partendo dalla biologia stessa significa, non solo trovare valide alternative a processi basati su metodi poco o per nulla sostenibili, che l’ambiente tollera sempre meno ma, come sottolinea Maurizio Montalti, cofondatore di Mogu e direttore di R&G, progettare «in collaborazione diretta con la vita e soprattutto per la vita, non solo quella degli esseri umani, ma dell’intero ecosistema di cui siamo parte».
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