Presi dalla quotidiana lotta all’epidemia, forse non ce ne siamo accorti: il mondo è cambiato. E tanto. Il Covid-19, piombato sul pianeta nel 2020, ha modificato in profondità i rapporti politici fra Paesi e potenze regionali, facendo nascere nuovi conflitti e generando un totale riposizionamento. Ciò che era latente è diventato scoperto: Cina e Stati Uniti sono in guerra non dichiarata, ma lo sono. La Russia cerca di riguadagnare consenso internazionale, ruolo, così come la Turchia, alle prese con il nuovo e vecchio sogno di impero Mediterraneo. L’Oceania ha riscoperto l’orgoglio della propria diversità.
Il tutto mentre le economie traballano e gli esseri umani rischiano di tornare indietro di 50 anni nella lotta alla fame e alla miseria. Diciamolo: non è un bel quadro.
Braccio di ferro
Il gioco tornato di moda sembra esser il braccio di ferro. E a stimolare virili richiami al confronto è sempre la Cina, onnipresente sulla scena internazionale e sempre meno simpatica ai rivali. Persino l’Oceania ha deciso di scendere in campo contro Pechino. In occasione dell’Aspen Security Forum del 5 agosto 2020, il primo ministro australiano Morrison ha ammesso che ciò che fino a poco tempo prima risultava «inconcepibile e considerato impossibile» come un conflitto armato tra Australia e Cina, non è più tale. Insomma, il confronto in armi è possibile, se la Cina non smetterà di interferire.
Ovviamente, Canberra non è sola, sa di essere appoggiata dalla Nuova Zelanda. I due Paesi hanno proposto di formare un’«area comune» alle altre isole del Pacifico, hanno riaffermato i loro rapporti con Taiwan – che Pechino considera propria – e chiesto all’Oms di aprire un’indagine internazionale sulle responsabilità di Pechino nella diffusione del virus.
Morale: le grandi isole del pacifico vogliono fermare la Cina, bloccando gli investimenti del Dragone sui loro territori e a dispetto di un’economia – la loro – sempre più dipendente proprio dai cinesi. Pechino ha risposto alzando i dazi sulle merci australiane. Canberra ha invece lanciato una poderosa campagna di acquisti d’armi.
La Cina protagonista
Pechino è comunque nei pensieri di tutti. Di Trump, ad esempio, che sembra dover passare alla storia come il Presidente del declino degli Usa. I dati sono impietosi: l’epidemia, che ha proprio negli Usa il picco, ha creato una disoccupazione record e, nel primo semestre del 2020, il Pil del Paese è crollato del 30%. Gli Stati Uniti non sono più – forse nemmeno sul piano militare – la superpotenza egemone e il Presidente ha scelto una strategia di difesa: no al multilateralismo, ritiro dagli scenari impegnativi e nuova Guerra Fredda, questa volta contro la Cina. Il risultato è nel massiccio investimento militare, nel progressivo disimpegno dalla Nato e nel dispiegamento delle flotte a controllo delle nuove aree sensibili: Mar della Cina e Artico.
Quanto conta la flotta
Nel Mar della Cina, Pechino vuol dettar legge. Lo sta facendo capire a tutti, con provocazioni ai vicini – Giappone soprattutto – sul possesso di isole e isolotti e potenziando la flotta. Gli Stati Uniti rispondono con manovre congiunte agli alleati nell’area. Poi, Washington ha ripreso a vendere aerei da combattimento – sono gli F16 – a Taiwan, mandando Pechino su tutte le furie. Il rischio d’incidenti – dicono gli osservatori – sta aumentando. Certo è che il controllo dei mari resta vitale. Il 90% del traffico di merci e beni è ancora sull’acqua e, quindi, controllare le rotte, accorciarle, renderle e tenerle agibili, è fondamentale.
Lo sa Mosca, che proprio sulla futura nuova rotta al Nord, la rotta Artica, punta per garantirsi un futuro. Il Presidente Putin sta affrontando la peggior crisi economica e politica della sua ormai lunga leadership. A dispetto degli annunci, l’epidemia continua a mietere vittime in Russia e l’economia è in ginocchio, con il mercato interno praticamente fermo e i ricavi della vendita del petrolio insufficienti a coprire i buchi della bilancia commerciale. Putin ha continuato a rilanciare, con un attivismo «soft» fatto di aiuti ai Paesi satellite di Europa e Asia Centrale, mantenendo le posizioni militari nel Vicino Oriente e, soprattutto, annunciando al mondo di aver trovato un vaccino contro il virus. La notizia, arrivata all’inizio di agosto, è stata smentita dagli scienziati, scettici sul fatto che il farmaco funzioni, ma tant’è: Mosca è rimasta sulla scena.
In questo quadro, le speranze vere di rilancio per Putin sono davvero a Nord, in quella rotta Artica che il ritiro del ghiaccio sta rendendo praticabile. I trasporti fra Asia, Europa e Nord America diventerebbero più veloci ed economici e praticamente tutta la rotta sarebbe davanti alle infinite e lunghe coste settentrionali della Russia. Come dire: Mosca diventerebbe la padrona del più grande nastro trasportatore della storia dell’uomo.
I giochi dei grandi e quelli dei piccoli
Nel resto del pianeta, le cose vanno avanti, esattamente come prima. Grandi crisi e guerre son ancora lì. Si combatte in Siria, Libia, Ucraina, Somalia, Yemen, India, Thailandia, Filippine, Myanmar. In Africa, la tensione è salita fra Etiopia, Sudan ed Egitto per il controllo delle acque del Nilo.
Il virus, poi, ha scompaginato molto sul fronte dei diritti. Nell’Est d’Europa le fragili democrazie hanno continuato a logorarsi, con gruppi dirigenti sempre più impegnati a smantellarle per curare i propri interessi e affermare le proprie oligarchie. L’elenco è lungo: Ungheria in testa, poi Polonia, Montenegro, Serbia.
La Bosnia è stata al centro dell’ennesimo scandalo, per gli affari della famiglia presidenziale sulle attrezzature mediche. In Ucraina sono diffusi i timori di un accordo opaco tra Kiev e Mosca sul Donbass.
In Moldavia, Georgia e Bielorussia le elezioni non sembrano aver portato maggiore democrazia, anzi hanno scatenato le opposizioni e i dissensi.
Nel Vicino Oriente si continua a morire. Lo si è visto in Libano, piegato dall’esplosione del porto di Beirut nei primi giorni di agosto del 2020. Troppi i morti e i feriti per non scatenare la protesta in un Paese che stava comunque rischiando di esplodere, pressato dal debito estero non pagato e dalla crisi economica.
In Siria i soldati turchi continuano a combattere. Soldati turchi che sono diventati da esportazione e occupano aree nel Mediterraneo, per dare forma alla politica neoimperialista di Ankara, che cerca spazio anche grazie agli aiuti sanitari portati là dove interessa: Vicino Oriente, appunto, Balcani, Asia Centrale.
La Turchia sta tornando protagonista sulla scena internazionale.
Economia: è un disastro
Ma il vero pericolo per tutti viene dal blocco dell’economia e dalla fatica a rialzarsi. Se gli Stati Uniti segnano la peggiore crisi economica della loro storia, l’Africa – che da 25 anni segnava una crescita robusta e costante nonostante tutto – è al tracollo. Il Pil crollerà, soprattutto perché a fermarsi è stata la cosiddetta economia informale, di strada, quella dei venditori ambulanti. È una tragedia che l’Africa condivide con America Latina e Asia. Si rischia di retrocedere di cinquant’anni, a livello planetario, nella lotta alla fame e alla miseria, cancellando i buoni risultati ottenuti a partire dal 1990.
A frenare il futuro è anche il crollo delle rimesse degli emigrati, bloccate dal lungo lockdown e dalla conseguente chiusura delle frontiere. I circa 200 milioni di migranti del mondo mantengono circa 800 milioni di persone. Secondo la banca Mondiale, nel 2019 hanno mandato nei loro Paesi d’origine 554 miliardi di dollari. Quest’anno, si prevede che l’importo diminuirà di circa il 20%, fino a scendere a 445 miliardi di dollari. In alcuni casi, le rimesse sono buona parte del Pil interno ai Paesi. Tonga, ad esempio, ha il valore relativo più alto nel Mondo, con il 37,6%, ovvero 183 milioni di dollari per il 2019. In Europa il Montenegro è il più minacciato: le rimesse rappresentano il 25% del Pil. In Ucraina è il 10,5%, in Albania il 9,4%.
L’Unione europea sotto pressione
Tutto questo ha messo sotto pressione l’Unione europea, che ha faticato a trovare solidarietà interna per uscire dall’epidemia ed era assolutamente impreparata sul piano della politica estera. Alla fine, i 27 Paesi hanno trovato un accordo sugli aiuti al proprio interno, sulle regole per averli, mettendo in campo il Recovery Fund da 750 miliardi di euro. Interessante scoprire che mentre questo accadeva, dal bilancio comunitario venivano tagliati – da 15,5 a 3,5 miliardi – i fondi per la cooperazione, mentre non venivano toccati i 13,5 miliardi destinati alla difesa comune. L’Unione sembra aver deciso di puntare a un modello di difesa armata sempre più integrato fra i vari Paesi, in grado di riempire i buchi lasciati dagli Sati Uniti, decisi a disimpegnarsi dal Vecchio Continente. È presto per dire che ci sarà un esercito europeo, ma le basi sono state gettate.
La crisi da Covid-19, con la sensazione di pericolo imminente e di insicurezza che si porta dietro, sembra confermare che le risposte che si trovano sono sempre, solo, risposte armate.
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