La via corta parte da una piccola cappella dedicata alla Madonna della Neve: il sentiero s’inerpica deciso su per la montagna fiancheggiato da un torrente, da radici che si avviluppano alla terra come enormi tentacoli e da cime protese alla ricerca del sole. L’asfalto si allontana, e in pochi minuti la foresta prende il sopravvento. Proseguo, il respiro si fa breve, un picchio canta la sua gioia. Il viottolo si intreccia con il ruscello e pietre lisce creano un sentiero a pelo d’acqua.
Salgo ancora e mi ritrovo in una piccola radura che accoglie tre croci e un abete bianco centenario; un tempo questo era il limite invalicabile oltre il quale non si poteva andare, così che la tranquillità dei monaci dell’eremo non venisse intaccata. Cammino ancora, il percorso si fa meno ripido, un tratto piano mi fa riprendere fiato, intorno alberi e un laghetto immerso nella pace. Il vento ha smesso di soffiare, la quiete è ovunque e io mi fermo a contemplare la bellezza.
Scorgo un uomo; è seduto poco lontano, a gambe incrociate sotto un maestoso faggio, la foresta intorno. È giovane, ha il volto affilato e il corpo agile, piccoli occhiali proteggono occhi chiusi sul silenzio. Vicino a lui, appoggiato a terra, un tappetino da yoga. Mi siedo su un tronco, mi abbandono a questa pace, inspiro ed espiro con lentezza come se fosse l’unica cosa importante in questo momento. Non so quanto tempo passi, l’uomo riapre gli occhi, il suo viso s’illumina e mi sorride come se ci fossimo già incontrati in un altro tempo. Fa segno di avvicinarmi e mi chiede cosa mi abbia portata nella foresta in questa giornata d’inverno. Si presenta: è un monaco del sacro eremo.
È partito quindici anni fa dalla Germania con una bicicletta che conteneva i suoi averi, ha pedalato per giorni lasciando che molti chilometri scorressero sotto le ruote della sua libertà, ed è arrivato qui spinto da una curiosità e da un anelito verso qualcosa che non fosse la sua quotidianità fatta di organizzazione di eventi, tour in bicicletta, feste, soddisfazioni materiali. In un punto preciso della sua traiettoria di vita, tutto ciò non poteva più bastare e allora ha inforcato la strada e masticato chilometri di lontananza, scegliendo la bicicletta come mezzo per arrivare e forse anche per fuggire, se il sogno si fosse infranto. Giunto in quel di Camaldoli, ha chiesto ospitalità nel monastero per cercare risposte alle domande esistenziali che gli giravano attorno.
Lo sguardo è limpido, dietro le lenti gli occhi ammiccano gioiosi. Iniziamo a raccontarci le nostre vite con la quieta semplicità di chi non ha nulla da nascondere. I discorsi fluiscono leggeri, forse non ci siamo mai visti prima, ma qualcosa che ci accomuna nel profondo apre i nostri cuori mentre le parole trovano da sole la loro strada. Gli chiedo se ogni giorno venga sulle rive di questo lago. Mi risponde con grazia: «Ci vengo spesso, ma non è necessario trovarsi in un luogo bello per essere sereni, è sufficiente chiudere gli occhi e immergersi nel proprio rifugio di pace che noi monaci chiamiamo Spirito Santo». Mi fissa, il sorriso è parte del suo volto. «Il silenzio» aggiunge «è già nel fondo del tuo cuore; a volte è nascosto, altre sopraffatto dalle preoccupazioni o dal rumore, ma è lì che ti aspetta».
Silenziare la mente
Lo ascolto con attenzione, cerco di far riverberare le sue parole dentro di me: «Non mi è facile» dico «entrare in questa dimensione. La mia testa è piena di pensieri che girano vorticosamente riempiendo ogni spazio e generando un rumore di sottofondo che non mi fa sentire altro». Annuisce serio. «Lo so bene, anche per me è stato a lungo così e non solo per me: i monaci e i saggi di tutti i tempi hanno sperimentato il fragore della propria mente che rumoreggia, impedendo di ascoltare la preziosità del silenzio. L’uomo, invece di riposare nel luogo che il Creatore ha impresso dentro di lui, annaspa frenetico nei propri pensieri come un pesce privo d’aria che boccheggia disperato».
«In India» continua «per descrivere la mente umana usano l’immagine delle scimmie che saltellano come impazzite da un ramo all’altro; questa rincorsa convulsa fa vivere l’uomo in costante agitazione e gli impedisce di percepire il divino dentro di sé. Per questo tutte le tradizioni hanno sviluppato metodi per trovare la grotta silenziosa nel fondo di se stessi. Non esiste una bacchetta magica per scovare questo» aggiunge, «e nonostante io viva da lungo tempo all’eremo, in condizioni quindi privilegiate, la mia mente è talvolta ancora inquieta e fatica a trovare un simile spazio di nutrimento, che diventa un luogo sacro da abitare sette volte al giorno per poi espandersi ad altri ambiti, fino a sentire che tutto è sacro e arrivare a trattare ogni oggetto, persona e situazione come tale».
Il monaco si zittisce per pochi secondi, poi mi fissa come se stesse per rivelarmi qualcosa di molto intimo: «Per brevi istanti mi è stato permesso di penetrare il mio spazio di silenzio» fa una pausa «e ho compreso che esiste qualcosa più grande di me che mi ha dato la vita, ho sperimentato che non sono solo questo corpo con i suoi pensieri e bisogni che corrono come pazzi, ma che qui dentro – si mette una mano sul petto – proprio in fondo, si cela una dimensione eterna, stabile e inalterabile. In quegli attimi preziosi, vissuti magari camminando nella foresta o lavando i piatti, ho intuito che la vita eterna la portiamo dentro e ho capito chi sono veramente. Come un lampo nel cielo in tempesta, la verità mi è apparsa in tutto il suo splendore svelandomi la mia vera natura e il senso del mio esistere su questa Terra».
La pratica dello yoga
Segue un lungo tacere; siamo seduti l’una di fronte all’altro, l’atmosfera è rarefatta, gli alberi fissano immobili il cielo e io mi chiedo: chissà quante creature si sono soffermate sulle sponde di questo piccolo lago per ammirarne la bellezza, quante parole sono state dette all’ombra delle altissime fronde e quante mani hann accarezzato le ruvide cortecce. Un tempo, nel piccolo bacino, nuotavano i pesci che nutrivano i monaci dell’eremo, ora le acque ospitano preziose specie in via di estinzione.
Il monaco guarda lontano, sembra contemplare cose che i miei occhi non possono vedere, poi mi osserva, sorride ancora e riprende il suo racconto. Pratica yoga da molti anni e lo insegna ad allievi venuti da ogni dove in cerca di pace. «Sono pieno di gratitudine» mi dice «per questa disciplina che ci permette di muoverci verso il luogo della pace che è in noi. Yoga è la sospensione del turbinio della mente, non è il movimento del corpo, né il respiro, ma l’unione di tutti gli aspetti dell’uomo. Lo yoga ci aiuta a fluire, allineati a tutto il nostro essere, verso la profondità del silenzio e, mentre i nostri pensieri si dissolvono, ci viene rivelato che siamo esseri di luce, figli di Dio».
Un falco vola sopra di noi fendendo l’aria immobile. Il monaco fa una pausa e prosegue: «A volte qualcuno sembra sorpreso che un monaco cristiano insegni yoga, in realtà per me è un modo per trovare il silenzio e sviluppare la mia capacità di onorare quietamente il Creatore. Nei secoli i monaci hanno posto l’attenzione nello sviluppare una capacità che permettesse loro di svuotarsi di aspettative e preoccupazioni per andare incontro a Dio e ai fratelli; per questo hanno pregato nel deserto, ripetendo incessantemente le stesse invocazioni, per trascendere loro stessi. Quando pratico yoga riesco ad abbandonarmi al silenzio, a farmi sorprendere e prendere per mano lasciandomi guidare verso i luoghi che Dio ci ha promesso. Noi veniamo dal paradiso, dal grande giardino armonioso nel quale torneremo alla fine dei nostri giorni terreni».
Perdere la maschera per trovarsi
Gli chiedo da dove si possa cominciare a ritrovare se stessi. Il monaco guarda verso le cime degli alberi: «Quando riusciamo a intuire la nostra origine, da dove veniamo e dove siamo diretti, allora e solo allora troviamo il nostro centro a partire dal quale possiamo muoverci nel mondo senza paura, senza voler diventare a tutti i costi qualcosa di diverso da ciò che siamo, magari per soddisfare le aspettative altrui. Nel cammino spirituale per trovare noi stessi e mostrare il nostro vero volto, dobbiamo prima perderci e mollare la maschera che ci siamo costruiti».
Il viso del monaco, rivolto verso l’alto, è radioso, i suoi occhi riflettono la luce del primo pomeriggio e sembrano rispecchiare la calma bellezza di questo lago. In lontananza i rintocchi delle campane ci ricordano che è tempo di qualcosa, ma non ci appartiene la fretta di andare da nessuna parte. Tutto sembra essere racchiuso in questo istante. «Che importanza ha il lavoro nella vostra vita?» chiedo. «La ripetizione del lavoro, così come la struttura rigida della giornata, diventano una forma di preghiera: il labora è il lavoro materiale indispensabile per riportare a terra il monaco che rischia altrimenti di fluttuare in una vita puramente spirituale».
Mi sorge spontanea un’altra domanda pensando alla diversa concezione che il monaco aveva del lavoro quando stava in Germania: «Tu hai vissuto in città incontrando gente diversa ogni giorno, gratificato dai successi professionali, e poi sei diventato un eremita che se ne sta in mezzo alle montagne. Non ti va stretta questa vita? Non ti senti in una sorta di prigionia dove ogni alba appare simile alla precedente, dove le persone che incontri sono sempre le stesse e ogni ora è scandita da regole precise?». Per un attimo sento la mia libertà farsi sconfinata e aggiungo: «Te lo chiedo perché io posso essere ovunque e andare in ogni direzione, e questa sensazione mi fa provare l’ebbrezza dell’aquila che vola sopra la vastità del mondo».
Il divino nelle piccole cose quotidiane
Il suo sguardo si fa pensieroso, probabilmente si è posto molte volte la stessa domanda, e la sua risposta mi fa da specchio: «Sì» mi dice «la vita monastica viene vista come un’esistenza stretta ma, se ci pensi, ogni vita si ripete in un modo o nell’altro; pur avendo un lavoro e una vita creativi, a volte tutto ci può comunque sembrare uguale come in un eterno copione. Non è importante ciò che facciamo, ma come lo facciamo, se siamo in grado di scoprire la novità che il “sempre lo stesso” contiene. Ogni piccolo gesto racchiude in sé la possibilità di espressione del divino».
«Nella ritualità di ogni giorno, nelle pieghe del quotidiano, c’è uno spazio immacolato dove il divino si può mostrare. Dentro la nostra cella, in quel grande microcosmo, non ci ritiriamo dalla vita pubblica, ma entriamo profondamente in contatto con l’anima del mondo a volte molto più di quando ci muoviamo fisicamente». «Non abbiamo bisogno di tante cose, la piccola cella contiene tutta la ricchezza che ci serve: siamo abitati e attraversati da Colui che ha creato il tutto. La cella ci insegna l’essenzialità; quando quindici anni fa sono partito con la bicicletta e una piccola borsa contenente solo le poche cose che potevano servirmi, per i primi tre anni sono stato senza cellulare, senza computer, con abiti semplici, senza nulla che chiedesse attenzione e potesse distogliermi dalla mia solitudine. Ho vissuto giornate piene di gioia con quello che c’era, ho raccolto fiori nei campi e creato sculture con la terra del ruscello, ho ascoltato la vita intorno a me dispiegarsi leggera, ho avvertito forte la Presenza che si dipanava in ogni cosa. Anche le idee arrivavano felici, mi nutrivo ogni giorno di ciò che la vita mi regalava, sentivo forte la mia origine e il mio cammino. Poi gli oggetti si sono accumulati, distogliendomi da ciò che davvero conta, e lo spazio si è riempito di cose superflue con le quali oggi convivo, pur sapendo che potrei farne a meno con grande facilità».
Raggiungere la pace interiore
Il monaco fissa un punto indefinito davanti a sé, poi riprende scandendo lentamente le parole: «Credo che la vera libertà sia poter stare in una grande foresta come nel caos di una città, percependo dentro di sé un’isola di silenzio che permette alla presenza di Dio di affiorare in ogni istante. Quando riesco a percepire il divino nella vita e nella morte, nella bellezza e nella bruttezza, nel benessere e nella malattia, ecco, allora mi sento libero; ogni luogo della mia esistenza riverbera di una luminosa Presenza che mi toglie ogni paura, illumina gli angoli bui delle giornate e mi permette di essere ciò che sono con le mie ombre e le mie luci».
«Sai» continua fissandomi «sentire fortemente in me Cristo che abbraccia la mia e la nostra umanità così com’è, senza giudizio e aspettative, mi pacifica perché non devo fare nulla per meritare una ricompensa, posso davvero essere me stesso. Questa è l’origine della pace interiore: abbandonarsi a quello che è, aver fiducia che anche ciò che non si comprende subito abbia un significato. La fede è fidarci che la Sua presenza nel fondo di noi stessi ci guida e non ci abbandona mai, è mettere al centro la voce di Dio che ci parla nell’intimo del nostro cuore».
Il monaco torna in silenzio e io percepisco nelle sue parole la verità. Posso immaginare le ore di solitudine nella cella, la ricerca di un senso, le difficoltà del vivere con persone che non si sono scelte, ma condividono la ritualità dei gesti. Immagino l’eremo ricoperto di neve e avvolto dall’unico suono del vento che ulula. Davanti a questo monaco e a questo lago immobile, il corso della mia vita scorre come un fiume a tratti tranquillo, a tratti impetuoso, e ripenso a quante volte sono scappata dal silenzio assordante per ributtarmi nella moltitudine della folla, per risentire il rumore e non avere paura del vuoto che si faceva largo dentro me; rivedo volti incontrati per caso o cercati con l’illusione di creare qualcosa insieme, e migliaia di parole spese per non sentirmi sola davanti al buio dell’abisso.
D’un tratto l’uomo si alza, spazia con lo sguardo sulla foresta, gli alberi, il lago, accarezza un filo d’erba, raccoglie una piccola pigna e ci giocherella mentre riprende a parlare con ardore della sua vita nell’eremo. Mi racconta della Regola di San Benedetto, che da mille anni ancora governa e scandisce la vita dei monaci: «La Regola è stata fatta per la nostra debolezza, per ricordarci come vivere e per affiancare il nostro cammino. È una Regola pensata per i principianti, dice Benedetto, perché quando si è superato questo primo passaggio non ce n’è più bisogno, in quanto il monaco stesso diventa la Regola».
«Essa ci ricorda il combattimento sostenuto dai monaci che ci hanno preceduto, decisi a raggiungere un ideale di perfezione spirituale e, ogni momento, ci mette in una tensione volta a un nostro miglioramento costante. Delinea l’ideale verso il quale dirigerci e, mostrandoci le nostre imperfezioni, ci indica il cammino. Nessuno di noi è perfettamente povero, né perfettamente obbediente, né perfettamente casto, ma la Regola ci dà la direzione, ci fa intravedere gli spiragli per aprirci all’altro e allarga lo spazio dedicato a Dio».
Fare pace con noi stessi
Si ferma e osserva un punto davanti a sé, poi riprende. «La Regola ci aiuta a incontrare le resistenze e a dominarle, a relazionarci con i nostri limiti e a mappare le debolezze come la pigrizia e la disattenzione verso ciò che davvero conta. È importante sapere che i sette vizi capitali, che corrispondono in Oriente agli otto pensieri, fanno parte della nostra natura e non vanno affrontati frontalmente, ma compresi nella loro origine e osservati senza giudizio per dare loro un’altra direzione». Il silenzio torna a occupare la radura.
Penso a questo giovane uomo passato dal caos di una città a un eremo e m’interrogo sulle sue rinunce in favore di questa nuova regola di vita. Lui, come se avesse intercettato il flusso dei miei pensieri, continua. «Entrando in monastero lasciamo fuori una parte di noi, ma riceviamo qualcosa di molto più grande e, a volte, concederci piccole rotture della Regola serve a salvare il nostro rapporto con la Regola stessa, che non è contro di noi ma per noi, per aiutarci nel cammino verso la pienezza della felicità. La bellezza della Regola è la forza della purificazione che entra nella nostra vita, non per farci diventare superuomini, ma per conoscerci profondamente, per fare pace con noi stessi».
«Anche i comandamenti lavorano in questa direzione. Gesù Cristo, che intuiva quale potesse essere la strada per ciascuno, forniva indicazioni di vita; al giovane ricco, per esempio, chiedeva di vendere tutti i suoi averi perché sapeva bene che partendo dal distacco dei beni materiali l’uomo avrebbe potuto iniziare un cammino diverso; ad altri, che era certo di poter guarire, concedeva invece parte della sua energia e forza. Ognuno aveva così ciò che poteva ricevere e che avrebbe cambiato il corso della sua esistenza, ma non con regole severe».
Osservo quest’uomo, l’energia gioiosa che lo anima e la sua profonda tranquillità. Un’ultima domanda sorge spontanea: «Cos’è per te la meditazione?».
Affidarsi
Il monaco riflette a lungo perché ogni termine va soppesato, si siede a gambe incrociate e risponde. «La meditazione non è un processo che mette al centro l’individuo per la ricerca del suo benessere, è il contrario: il principio e il fine della meditazione è l’abbandono, il decentramento, l’ascolto, il lasciar tacere la mente in modo che un altro possa parlare. È affidare il proprio respiro a Colui che fin dalla nascita respira dentro di noi per aprirci al presente, allo sconosciuto, alla grazia. È affidarci allo Spirito che prega in noi, a Colui che è vita e amore. La meditazione può diventare un luogo invisibile nel quale sperimentare l’unità di fondo con tutto il creato, ridurre e governare la nostra paura del diverso, delle incognite, del futuro e della morte e aprirci così a una vita più libera, più fiduciosa, più autentica».
Le parole fluiscono naturali mentre il freddo comincia a entrarmi nelle ossa e il pomeriggio avanza veloce. La luce si sta affievolendo, tra un po’ il sole comincerà a scendere dietro la montagna, è tempo di ripartire. Ci abbracciamo fraternamente con la gratitudine degli incontri preziosi e con la promessa di rivederci all’eremo tra qualche ora.
Tratto dal libro di Enrica Bortolazzi, Nel silenzio dell’eremo. Sette giorni per trovare la pace interiore, Mondadori (2019).
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