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Termocompost: calore e fertilizzante naturale

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Una tecnica semplice che richiede poca tecnologia per produrre acqua calda e un ottimo fertilizzante. Grazie al lavoro dei batteri, gli scarti agricoli diventano ricchezza.
Termocompost: calore e fertilizzante naturale
La guerra senza quartiere che abbiamo ingaggiato contro i batteri ci porta poco lontano. Ancora una volta, è a questi grandi trasformatori che dobbiamo tornare per migliorare la nostra vita. Ne abbiamo spesso parlato riferendoci al microbiota intestinale, alla microbiologia che alberga nei terreni fertili, o ai cibi fermentati, che grazie all’azione batterica diventano più nutrienti, digeribili e conservabili.
È forse meno evidente il collegamento con le energie rinnovabili ed è proprio di questo che vi vogliamo parlare, in un’ottica totalmente diversa rispetto al consueto, grazie a un processo elementare quanto affascinante: la produzione di calore attraverso i sistemi di termocompost, una soluzione a portata di mano soprattutto per chi vive in campagna, che richiede il solo impiego di ramaglie e altri scarti delle potature, con una serie di numerosi vantaggi. La funzione del termocompost è duplice: da una parte si produce calore, dall’altra di trasformano i residui vegetali in preziose sostanze da impiego, come il concime, perfettamente digerito dal processo microbico e quindi pronto per l’uso, con un’alta biodisponibilità dei principi nutritivi utili al terreno.
Il termocompost è nato dall’esperienza di Jean Pain, permacultore francese di origini svizzere, che negli anni ’70, nella sua tenuta agricola ai piedi delle alpi provenzali, riuscì ad elaborare un metodo semplice ed economico per produrre energia e fertilizzanti dagli scarti legnosi del bosco. Il sistema da lui ideato ci permette ancora oggi di ricavare energia termica dai naturali processi di compostaggio, utilizzando un sistema a basso livello tecnologico, facilmente realizzabile da chiunque.

Come funziona

Per approfondire le conoscenze sul funzionamento e l’impiego di questa tecnologia abbiamo contattato Revitae di Bologna, un’associazione che promuove e unisce sostenibilità, cultura, innovazione agricola, occupandosi di energie rinnovabili, gestione sostenibile delle risorse, principi e pratiche della permacultura. «La tecnica utilizzata prevede la costruzione di un cumulo cilindrico di 2 metri circa di altezza e con un diametro di 3-7 metri, costituito da cippato di ramaglie, letame, sfalci erbosi e altra materia organica vegetale, all’interno del quale vengono poste delle serpentine percorse da acqua o altro fluido termovettore. Una pompa permette la circolazione dell’acqua, che viene generalmente conservata in un accumulo termico». Le parole sono di Saverio Danubio, biotecnologo industriale e vicepresidente dell’associazione Revitae, che assieme ai suoi colleghi, l’ingegnere energetico Paolo Zampieri e l’esperto di impianti rinnovabili Stefano Plescia, ha alle spalle un’ampia esperienza europea nella progettazione di impianti. Durante il processo di compostaggio aerobico, ci spiega, la materia organica viene degradata e trasformata in compost grazie all’attività dei microrganismi. In questa fase viene prodotto calore, in quanto le reazioni in gioco sono simili a quelle della combustione, ma avvengono più lentamente. Da questo processo si ricava dell’ottimo compost, ricco in lignina e dotato di importanti proprietà, non solo fertilizzanti, ma anche ammendanti, in grado di arricchire la struttura del suolo.
«Il termocompostaggio, di fatto, accelera delle reazioni che avvengono in natura» spiega Danubio. «Con la differenza che, quando le reazioni avvengono all’aperto, le condizioni non sono sempre ideali e buona parte della materia organica tende ad allontanarsi sotto forma di CO2 ed altre molecole volatili. In questo modo invece si produce una base importante del suolo, con una ricchezza e un equilibrio microbiologico impagabile e con altre preziose sostanze, come gli idrolizzati dei polimeri della lignina». Per un profano, tutto questo ha il sapore della magia: all’interno dei cumuli si alternano diverse classi di batteri e microrganismi, ma nessuno prevale mai completamente sull’altro. I batteri nocivi di fatto vengono contenuti. E un terreno trattato con questo tipo di compost si arricchisce di fertilità, porosità e resistenza ai fenomeni idrogeologici. Inoltre, parte del carbonio presente nello scarto organico vegetale rimane intrappolato nel compost, con la funzione di sequestrare l’anidride carbonica che andrebbe altrimenti a contribuire alla formazione di gas serra di origine naturale.

La scoperta dell’acqua calda

Il termocompost è una tecnica particolarmente vantaggiosa in aree di campagna, dove ci si trova spesso a dover smaltire considerevoli quantitativi di biomassa. Questa pratica rappresenta un metodo senz’altro più intelligente rispetto all’abbruciamento dei residui vegetali che, sì, può produrre energia e calore, ma con la conseguente emissione di CO2 e fumi tossici. Le potature possono invece essere finemente triturate e accatastate in cumuli. Il resto lo fanno i batteri, che possono essere già disponibili o aggiunti mediante l’inoculazione di letame, con una produzione di calore che si assesta mediamente sui 50° C. Un semplice impianto idraulico realizzato con tubi in polietilene e una piccola pompa elettrica consentono di estrarre acqua calda, che può essere sfruttata per la produzione di acqua calda sanitaria, per il riscaldamento di ambienti domestici e per altri usi, come in serre o piscine riscaldate.
Il nostro biotecnologo ci aiuta a distinguere due tipologie di termocompost. «Il sistema classico» dice «prevede l’inoculo di una quantità ridotta di letame, preferibilmente da allevamento biologico, dal 5% al 20%, in modo da non alterare struttura e porosità del cumulo. Di fatto, il letame provoca un immediato innalzamento delle temperature già nella prima fase di compostaggio, garantendo una prima sanificazione. Esiste poi un altro sistema, che prevede di lavorare al 100% con letame, ma è una tecnologia più complessa, realizzata solo in Germania e in Austria dall’associazione tedesca Native Power.
Il termocompost può poi prevedere l’inserimento di un digestore anaerobico indipendente al suo interno, in modo da poter ricavare biogas. Ma è un sistema che richiede più attenzioni».
Un impianto di termocompostaggio ha bisogno di uno spazio che va dai 10 ai 50 m², ed è realizzabile con poca spesa da chiunque abbia un minimo di manualità ed esperienza. Consente di creare piccole economie circolari e valorizzare le risorse locali con importanti benefici in termini di resilienza economica, ambientale e sociale dei territori. Una soluzione a basso costo per ridurre l’impiego di combustibili fossili in azienda e sfruttare gli scarti biodegradabili, che finiscono per trasformarsi in compost di alta qualità, migliorando le caratteristiche dei suoli e, di conseguenza, anche del cibo prodotto.
Allora, perché non considerarlo a tutti gli effetti una fonte preziosa di energia rinnovabile? «Purtroppo la normativa non è ancora sufficientemente chiara e non incentiva queste soluzioni» ci risponde Danubio. «un ingegnere spesso non sa come inquadrare il termocompost, ma con il tempo abbiamo capito come risolvere alcuni degli inconvenienti più comuni. Se non si è ancora capita bene la sua utilità è perché nel nostro paese, di fatto, viene ancora permesso, o meglio tollerato, l’abbruciamento degli scarti legnosi o il loro conferimento in discarica. Si fa fatica a mettere a regime il sistema, ma l’interesse sta crescendo e abbiamo già realizzato diversi impianti funzionanti».
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Luglio-Agosto 2020

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