Vitamina E e selegilina
Per il fatto di essere una vitamina liposolubile, facilmente accessibile, interessante, assumibile senza prescrizione, la vitamina E rappresenta una tentazione subitanea. Fermamente convinti che il danno ossidativo possa accelerare l’Alzheimer, i ricercatori del dipartimento di neurologia del Columbia University’s College of Physicians and Surgeons hanno condotto uno studio multicentrico randomizzato in doppio cieco e con gruppo di controllo con placebo su pazienti con Alzheimer di gravità moderata.
Per due anni i pazienti hanno ricevuto, a secondo del gruppo di appartenenza, selegilina, nella convinzione che ritardasse il progredire della malattia (essenzialmente un farmaco usato per il morbo di Parkinson che può essere utilizzato anche come antidepressivo); alfatocoferolo (vitamina E, 2000 UI al giorno); selegilina e alfatocoferolo insieme oppure un placebo. Gli scienziati hanno osservato soprattutto quattro parametri:
• Tempo impiegato per raggiungere un end-point combinato di morte.
• Bisogno di sistemazione in struttura.
• Perdita della capacità di condurre attività quotidiane (ADL).
• Progressione verso la demenza grave basata sulla scala di valutazione Clinical Dementia Rating.
Si è notato un rallentamento nella progressione verso queste fasi nel gruppo che assumeva vitamina E, ma non in quello della selegilina e del placebo. Ma diversi test cognitivi usati per valutare gli end-point secondari, inclusi l’MMSE e l’Alzheimer’s Disease Assessment Scale, non hanno mostrato alcuna differenza tra i gruppi.
I numeri sono una lettura interessante che conduce alla conclusione che i ricercatori che hanno condotto lo studio erano, nella migliore delle ipotesi, irragionevoli, nervosi e disperati. I numeri che seguono erano stati diffusi per attestare il rallentamento della malattia:
• Selegilina, tempo medio 655 giorni.
• Vitamina E, 670 giorni.
• Terapia combinata di vitamina E e selegilina, 585 giorni.
• Gruppo di controllo con placebo senza farmaci, 440 giorni.
Com’era prevedibile, i ricercatori sottolinearono i 670 giorni di rallentamento nella progressione della malattia come se fossero la prova definitiva dell’azione della vitamina E come angelo custode dei pazienti con Alzheimer. Erano anche contenti del fatto che il gruppo della selegilina avesse avuto risultati marginali migliori rispetto al gruppo di controllo.
Ma quando arrivarono al gruppo della terapia combinata, gli autori si bloccarono, iniziarono a incespicare fino a rovinare giù nel baratro. Se prese singolarmente le sostanze usate potevano rallentare la malattia, perché la loro combinazione (585 giorni) non produceva un risultato che fosse la somma delle due efficacie? Erano veramente a corto di spiegazioni, come risulta evidente dall’affermazione che segue: «Ci sono diverse spiegazioni possibili per la mancanza di un effetto addizionale del trattamento. Forse entrambe le sostanze esercitano i loro effetti attraverso il medesimo meccanismo ed entrambe forniscono il massimo beneficio. In alternativa, ogni sostanza potrebbe funzionare con un meccanismo indipendente, ma la malattia potrebbe essere sufficientemente grave da non permettere di osservare benefici aggiuntivi. Infine, un agente potrebbe interferire con l’assorbimento o il metabolismo dell’altro, impedendo l’effetto addizionale».
In merito al loro meccanismo scientifico di azione, i ricercatori hanno sottolineato: «Si possono fare solo supposizioni in merito al meccanismo che sta alla base di questo effetto. La selegilina potrebbe avere favorito il funzionamento dei neuroni nigrali o la loro capacità di resistere inibendo la deaminazione ossidativa».
Il New England Journal of Medicine, considerata la bibbia di tutte le fonti basate sull’evidenza, glissò sui potrebbe e non potrebbe, tirò dritto e pubblicò lo studio.
I farmaci antinfiammatori
I farmaci antinfiammatori, di fatto antidolorifici senza prescrizione medica, sono la via più facile per chi cerca sollievo immediato. La tentazione si radica nella nostra convinzione che tutti i disturbi che ci ritroviamo a fronteggiare siano il risultato di un’infiammazione. Ciò conduce all’inevitabile generalizzazione secondo cui gli antinfiammatori possono essere usati come salvavita per i pazienti con Alzheimer. Dal naproxene all’aspirina, ecco che si riempiono gli scaffali.
In questo caso a intervenire sono stati gli scienziati olandesi. Nel Rotterdam Study del 1998, condotto dal dipartimento di epidemiologia e biostatistica della Erasmus University Medical School olandese, report anedottici hanno indicato come l’uso di farmaci antinfiammatori non steroidei (NSAID) potesse ridurre il rischio di Alzheimer.
Gli autori avevano studiato la correlazione trasversale tra l’uso di NSAID e il rischio di Alzheimer in uno studio di popolazione focalizzato sulla malattia e la disabilità negli anziani.
Rispetto ai non utilizzatori, gli assuntori di NSAID avevano un rischio minore di Alzheimer. E la speranza tornò a germogliare. Uomini e donne diventarono degli antidolorifici ambulanti nella speranza di liberarsi dell’artrite e dell’Alzheimer con un’unica pillola. Ma il mondo realizzò ben presto che il lavoro olandese era semplicemente uno studio epidemiologico, che giustificava e richiedeva uno studio clinico.
Quattro anni più tardi, si combinò uno studio clinico controllato in doppio cieco con placebo sul diclofenac/misoprostol (un esempio di antinfiammatorio non steroideo) usato su pazienti con Alzheimer da lieve a moderato. Furono i ricercatori australiani del dipartimento di farmacologia clinica del St. Vincent’s Hospital di Melbourne a condurre lo studio su quarantuno pazienti per venticinque settimane.
La ricerca produsse il risultato completamente opposto. Non dimostrò alcun effetto significativo del trattamento con NSAID sull’Alzheimer.
Due anni dopo, un altro studio contraddisse quello olandese e di fatto seppellì ogni fantasia sugli analgesici. Gli antinfiammatori non ringiovanivano le menti agonizzanti; anzi, come effetto collaterale, potevano causare ulcere.
Oggi ci troviamo in una terra di nessuno, dove ci si libera temporaneamente da segni e sintomi di malattie che si accavallano usando valanghe di medicine. Nel frattempo, i pazienti restano nel loro mondo inaccessibile, prigionieri delle loro stesse emozioni.
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Nel mondo sono circa 47 milioni le persone colpite da forme di demenza. Nel 50-60% dei casi (
tra i 24 e i 28 milioni) si tratta del
morbo di Alzheimer. Una vera e propria emergenza, senza contare che i casi sono destinati quasi a raddoppiare ogni 20 anni (stime
Alzheimer’s Disease International).
Gli scienziati non hanno ancora compreso la complessità di questa malattia. Le cause rimangono tuttora sconosciute e non esistono trattamenti efficaci. In questo libro il dottor Shuvendu Sen esamina le innumerevoli sfaccettature del problema e propone un approccio basato sulle antiche pratiche della meditazione e dello yoga, osservando anche i benefici della musicoterapia, della realtà virtuale, del tocco terapeutico e delle medicine olistiche.
Uno straordinario focus sul funzionamento della mente, motivo di speranza e ottimismo per il futuro.