Secondo i suoi sostenitori, molto spesso sfegatati, il bitcoin sarebbe uno strumento per scardinare gli aspetti negativi del mondo industriale, promuovere il riscatto sociale di classi sociali umili e addirittura consentire uno stile di vita sostenibile. Tutto si basa su una moneta completamente virtuale, i cui passaggi di proprietà sono scritti in un registro internet pubblico, consultabile e inviolabile, chiamato blockchain.
Come funziona
Si tratta di un sistema complesso che ha bisogno di una rete coordinata di «ragionieri» che gestiscano gli scambi, prelevando gli importi da chi paga e accreditandoli sul conto di chi riceve il compenso, scrivendo queste transazioni sul registro. Questi ragionieri vanno ricompensati e, per pagarli, la rete crea ogni giorno dei nuovi bitcoin. Visto il valore che ha assunto questa moneta, è logico aspettarsi che siano numerosi i candidati all’amministrazione di queste transazioni. Il sistema assegna questo diritto, e la relativa ricompensa, sulla base di una «gara» che consiste nella soluzione di un enigma computazionale. Più o meno, è come indovinare una password, di quelle lunghe e complicate. Un problema crittografico, noto ai matematici, che può essere risolto solo analizzando un numero gigantesco di combinazioni. La ricompensa viene assegnata al primo che risolve questo enigma.
Una specie di gioco, quindi, che dipende un po’ dalla fortuna, ma soprattutto dalla capacità di calcolo, ovvero da quante combinazioni si possono analizzare al secondo.
A seguito del successo mondiale dei bitcoin, queste ricompense sono diventate molto elevate, e, di conseguenza, molto ambite. La competizione che si è formata è diventata un vero guaio, scatenando una corsa all’oro: la quantità di operazioni necessarie ad aggiudicarsi il compenso è diventata talmente elevata da richiedere grandi quantità di risorse in termini di potenza computazionale, ma soprattutto di energia. Sono state così create aziende con enormi batterie di calcolatori, che provano combinazioni crittografiche 24 ore al giorno. Qualcuno ha chiamato questo gioco «mining» (estrazione mineraria), termine che ricorda le miniere di preziosi.
Un sistema energivoro
Il bitcoin è diventato un grande business, controllato da pochi minatori, aziende danarose con capannoni colmi di computer ottimizzati per svolgere questo tipo di calcoli. Molti di essi sono uniti in «gilde», organizzazioni in cui tutti i partecipanti mettono in comune le proprie risorse, spartendosi poi i compensi generati, in funzione del contributo di ognuno. Questa è la situazione assurda che si è creata: migliaia, milioni di computer che lavorano a pieno carico, richiedendo energia per il loro funzionamento e raffreddamento, producendo valore dal nulla, con un impatto devastante.
Secondo una ricerca dell’università di Cambridge1, questa forsennata lotteria per accaparrarsi i bitcoin di nuova creazione consuma ogni anno più energia elettrica dell’intera Argentina, vale a dire lo 0,34% dell’elettricità totale prodotta nel mondo. Sono numeri sorprendenti: significa che amministrare una moneta virtuale richiede più energia elettrica di una nazione formata da 43 milioni di persone, che si spostano (in un paese immenso), mangiano, producono acciaio, raffreddano e riscaldano case, usano elettrodomestici, treni, lavorano in fabbriche e uffici, e così via.
Questa stramba moneta, dunque, soggiace alle stesse logiche del sistema finanziario: favorisce piccoli gruppi di potenti ma, soprattutto, ha un impatto nefasto sull’ambiente. Non sempre virtuale significa efficiente: questa storia dimostra che la tecnologia non può aiutarci a risolvere i nostri problemi, serve prima di tutto una visione e poi un’intenzione a cambiare davvero.
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Articolo tratto dalla rubrica #Ecologia informatica
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