Ci risiamo! L’Italia brucia. Decine di migliaia di ettari di bosco vengono divorati dalle fiamme e l’aria si addensa di fumo.
Quando un albero brucia muore un alleato che ci offre l’ossigeno per respirare e ci rende possibile vivere su questa Terra. Non si pensa mai abbastanza al ruolo che hanno le foreste nella preservazione degli ambienti naturali, nella fornitura di acqua potabile e irrigua, e rispetto alla loro capacità di assorbimento di carbonio, dal momento che le foreste italiane assorbono da sole il 6% delle nostre emissioni di gas serra. In poche parole, gli incendi hanno un impatto negativo non solo sulla flora e sulla fauna, sulla biodiversità e l’estetica del paesaggio, ma anche sulla qualità dell’acqua e dell’aria che respiriamo.
La domanda divampa improvvisa nelle nostre teste: di chi è la colpa di questo disastro che ogni estate torna a tormentare i nostri giorni di vacanza? È giusto e comprensibile cercare un colpevole, ma come spesso accade, puntare il dito contro qualcuno non risolve affatto il problema. Dalla nostra sdraio, o sulla poltrona con il condizionatore acceso, possiamo prendercela comodamente per il ritardo nei soccorsi, scagliare dardi (infuocati) contro gli interessi delle mafie o la follia criminale di qualche piromane. Ma il problema è assai più complesso e ci richiede uno sforzo di comprensione in più, prima ancora di passare all’azione.
Nelle emergenze, ormai dovremmo averlo imparato, non c’è mai modo di affrontare le cause, e si ragiona unicamente su obiettivi a corto raggio.
Secondo l’informativa diramata dal Ministero della transizione ecologica, oltre il 70% degli incendi è riconducibile a una «nostra» responsabilità. Di questi, il 57,4% è doloso, mentre il 13,7% non è intenzionale, e quindi si tratta di incendi colposi per mancanza di cultura. Quelli di origine naturale, dovuti ad esempio ai fulmini, sono appena il 2%.
Ma sulla portata devastatrice degli incendi e sulla loro diffusione influiscono anche altre cause, come la gestione del suolo, la manutenzione dei boschi e dei sistemi forestali. E su tutto domina il cambiamento del clima che, come riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale, aumenta vertiginosamente il rischio di incendi boschivi in Europa.
Esiste una strategia di prevenzione?
I mesi più caldi, luglio e agosto, sono i più insidiosi, a causa delle alte temperature e dalla prolungata siccità. Nella scorsa estate, quella del 2021, abbiamo assistito inermi a un’ondata di incendi da record. Secondo i dati Effis, il sistema europeo di informazione sugli incendi boschivi, sono andati in fumo circa 160 mila ettari di territorio, quattro volte la media di quanto bruciato fra il 2008 ed il 2020. Dal 15 giugno al 30 settembre del 2021 sono stati registrati 79.796 interventi antincendio, 24.842 in più rispetto a quelli dell’anno precedente e 3461 in più rispetto a quelli del 2017, altro anno horribilis per l’alto numero di incendi. Tra le regioni più colpite la Sicilia, dove i vigili del fuoco hanno fatto ben 16.770 interventi, seguita dalla Puglia, con 14.045, e dalla Calabria, con 9257. Sono numeri da capogiro, che fanno pensare alle vaste porzioni di natura ridotte in cenere, a un enorme impiego di risorse, a cominciare da quelle umane, tra vigili del fuoco, volontari, piloti e operai forestali, per finire ai mezzi costosi e impattanti, come gli elicotteri antincendio e i Canadair. Per questi ultimi, una nota dei vigili del fuoco del 2020 parla di una spesa media di quasi 13 mila euro per ogni ora di volo. Oltre ai costi per lo spegnimento, bisogna poi considerare quelli per la bonifica e o la ricostruzione, per una spesa complessiva che Coldiretti calcola in 10 mila euro ad ettaro.
Purtroppo le previsioni dell’Onu ci dicono che a causa del cambiamento climatico e dell’uso del suolo, gli incendi potrebbero essere più frequenti e intensi, con un aumento globale di quelli estremi fino al 14% entro il 2030, del 30% entro la fine del 2050 e del 50% entro la fine del secolo. Un’analisi che indica l’urgenza di un cambiamento radicale nella spesa pubblica per gli incendi e che suggerisce la necessità di destinare più investimenti sulla prevenzione.
Ma cosa vuol dire fare prevenzione? Dobbiamo pensare a un folto schieramento di pattuglie sui crinali, telecamere e droni di sorveglianza? A sistemi di intervento potenziati e pronti a scattare al primo segnale? Un intervento tempestivo può essere risolutivo, certamente, ma non è sufficiente avvistare presto gli incendi per allontanare ogni minaccia.
Secondo la Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale (Sisef) per fare una prevenzione più efficace sarebbe invece opportuno agire sulle cause remote. I piani di azione sono due: cercare di mitigare i cambiamenti climatici, con l’obiettivo di arrivare al più presto alla neutralità carbonica, e al contempo mettere in atto strategie di adattamento per ridurre il potenziale di infiammabilità del bosco.
Se si vuole tutelare il territorio bisogna frenare lo spopolamento e cominciare a fare più affidamento su chi lo abita e lo coltiva. Il presidio degli agricoltori garantisce un’opera di manutenzione e gestione più corretta, in modo da poter vigilare anche sulle azioni criminali. I campi coltivati, gli orti, i vigneti e le aree di pascolo possono ridurre il potenziale di infiammabilità dei territori come aree tagliafuoco. Ma c’è bisogno anche di uno scatto di consapevolezza per una migliore gestione dei terreni. Da sempre, nei piccoli appezzamenti delle aree marginali, spesso contigui a boschi e incolti, i contadini bruciano le stoppie e i residui di sfalci e potature, mentre i boschi, utilizzati da millenni con finalità economiche sostenibili, non sono più gestiti come un tempo. Oggi si infittiscono, perché non interessano più a nessuno, se non agli escursionisti, e diventano facile preda degli incendi.
Prevenire il fuoco… con il fuoco?
Gli allevatori vengono spesso accusati di accendere fuochi e appiccare incendi per cercare nuovi spazi di pascolo. Cosa che in alcuni casi ancora avviene, purtroppo, in un legame spesso connivente con la criminalità organizzata, che mette in campo azioni di ritorsione, facendo terra bruciata attorno a sé. Ma non è certo il caso di ingaggiare una guerra contro i pastori. Il pascolo in realtà potrebbe offrire servizi sistemici di prevenzione, contribuendo a mantenere basso il volume dei cespugli. Il pascolo prescritto, in particolare delle capre, che si alimentano preferenzialmente di parti legnose o alte delle piante, si legge nel dossier a cura di Legambiente e Sisef, avrebbe la forza «per essere uno strumento di gestione ecologicamente ed economicamente sostenibile». Si ridurrebbe in questo modo il potenziale combustibile costituito da una vegetazione di erbe, arbusti, alberi e legna secca.
Operazioni colturali come i diradamenti forestali, lo sfalcio delle invasive erbacee e arbustive e la rimozione della necromassa sono state praticate per secoli da contadini e allevatori, e successivamente abbandonati. Ma anticamente si utilizzava anche il fuoco preventivo, che oggi torna ad essere utilizzato in aree soggette a grandi devastazioni, come la California. Si tratta di interventi difficili da gestire e far accettare oggi, ma nel passato costituivano la normalità presso i popoli nativi, che hanno periodicamente utilizzato e controllato il fuoco per creare fasce di sicurezza e ridurre il rischio di incendi più gravi. Era un modo per coltivare la terra, sostenere la vegetazione specifica utilizzata per cibo e medicine, e fornire pascoli di migliore qualità per i cavalli.
Queste pratiche, tuttavia, oggi vengono spesso condotte senza regole e applicate in un contesto diverso dal passato, con maggiore copertura e un conseguente aumento degli incendi colposi che generano conflitti e aggravano il lavoro dei sistemi antincendio regionali.
Ma la tecnica del «fuoco prescritto» potrebbe anche essere una soluzione, se attuata da tecnici specializzati, e i progetti avviati in diverse regioni hanno dato risultati apprezzabili. Come si legge nel sopracitato dossier Legambiente-Sisef, «in aree definite da piani di gestione pastorale porterebbe a ridurre drasticamente gli incendi di origine agropastorale». È quello che accade ad esempio sul versante francese delle Alpi Marittime, dove «dalla fine degli anni ’80 l’Office national des forêts pianifica il fuoco prescritto per fini pastorali in inverno, di concerto con consorzi pastorali per la gestione dei pascoli. Questo modello gestionale ha portato a una drastica riduzione degli incendi di origine pastorale in quell’area, perché i pastori non hanno più motivo di usare il fuoco in estate e di nascosto».
Un vademecum per la prevenzione
E noi, cosa possiamo fare quando il fuoco è divampato? Non auguriamo a nessuno di trovarsi coinvolto in un incendio boschivo. Sicuramente, dopo aver contattato la sala operativa ai numeri 112 o 115, sarà bene assicurarsi una postazione di sicurezza o una via di fuga, facendo attenzione anche alle conseguenze indirette. Il terreno, se collocato su versanti ripidi, si smuove più facilmente e sono possibili rotolamenti di massi o cadute improvvise di alberi danneggiati che possono collassare anche dopo il passaggio del fuoco.
Pensando alla prevenzione riportiamo un elenco dei comportamenti da tenere, diramato dalla Protezione Civile1:
• non gettare mozziconi di sigarette o fiammiferi;
• non abbandonare rifiuti: sono un pericoloso combustibile;
• non parcheggiare sull’erba secca: la marmitta calda potrebbe provocare un incendio;
• non accendere fuochi dove non è permesso e usare solo gli spazi attrezzati;
• se hai acceso un fuoco, non allontanarti finché non è completamente spento;
• non bruciare stoppie o residui agricoli;
• rispetta le ordinanze comunali;
• se avvisti un incendio, chiama subito i numeri 112, 115, 1515.
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