In Italia il termine homeschooling è più conosciuto e, forse per questo, talvolta utilizzato anche per indicare concetti che hanno a che fare con l’unschooling. I due termini però non sono affatto sinonimi. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
Homeschooling e unschooling non sono la stessa cosa.
Homeschooling (tradotto in maniera piuttosto limitativa con l’espressione “scuola a casa”) indica generalmente la scelta di chi rinuncia o esce da un percorso di istruzione scolastica, inclusa quella delle scuole democratiche o libertarie, per privilegiarne uno che si sviluppi a partire dalle mura domestiche. “A partire” perché di solito gli homeschoolers trascorrono molto tempo fuori da casa: in biblioteca, all’aria aperta, con gli amici, in giro per la città o la campagna o la montagna, per musei, al cinema, in ludoteca, in qualche attività di volontariato o coinvolti in qualche apprendistato. Per i bambini che seguono questo percorso, non esiste separazione fra la vita quotidiana e l’apprendimento: la scuola è il mondo.
Nell’immaginario popolare, l’homeschooling corrisponde all’imitazione della vita in classe in un ambiente domestico, con i bimbi che trascorrono l’equivalente delle ore di lezione curricolari seduti al tavolo di cucina e i genitori-insegnanti che impartiscono le lezioni preparate in precedenza. Alcuni genitori homeschooler ricreano in effetti una sorta di “scuola-a-casa”: individuano materie e abilità che si intende affrontare e sviluppare con un programma più o meno specifico, utilizzano materiali didattici appositamente predisposti o libri di testo scolastici, fissano obiettivi spesso ispirati alle direttive ministeriali per l’anno di riferimento e individuano forme di verifica del progresso. Rispetto a quello che avviene a scuola, l’insegnamento comunque è più personalizzato, interattivo e intensivo. Non ci sono infatti lentezze burocratiche e procedurali da fronteggiare (l’appello, la compilazione del registro, la gestione della disciplina in classe), il rapporto studente-insegnante è chiaramente più favorevole e si può seguire il ritmo di apprendimento dettato dal bambino, avanzando nei contenuti solo quando i prerequisiti sono stati raggiunti.
In genere poi, gli stili di apprendimento e le attitudini dei bambini vengono assecondati: così sono necessarie meno ore di lavoro per acquisire le stesse conoscenze rispetto all’insegnamento scolastico.
L’homeschooling comprende però anche altri percorsi: in alcuni casi il programma viene individuato e pianificato dai genitori, ma sulla base degli interessi specifici dei figli; in altri casi l’apprendimento è a progetto, cioè basato su unità di contenuti scelte dai bambini che i genitori contribuiscono ad approfondire e sviluppare.
Per gli unschooler, che si trovano all’estremo non-strutturato dell’insieme degli homeschooler, la definizione di cosa, come e quando, dove e con chi imparare è lasciata ai singoli bambini, che sono gli assoluti protagonisti della propria educazione, a prescindere da ciò che la scuola pratica, impone o esemplifica. Le istituzioni scolastiche non costituiscono un punto di riferimento, né in termini programmatici né in termini di risultati attesi o di obiettivi didattici da perseguire. Così come hanno fatto in età pre-scolare, i bambini imparano senza lezioni, senza insegnanti (o con gli insegnanti che di volta in volta si scelgono), senza aule, senza programmi didattici, senza materie, senza voti. Imparano semplicemente partecipando alla vita quotidiana della famiglia e della comunità: sono loro i principali responsabili del proprio percorso di auto-formazione.
Questi approcci non sono a compartimenti stagni: la flessibilità permessa dall’assenza di imposizioni fa sì che nell’esperienza pratica spesso le traiettorie individuali seguano approcci misti.
Nell’esperienza dell’unschooling l’apprendimento informale è predominante, ma ciò non significa che un bimbo unschooler non possa decidere di ricorrere a un apprendimento più strutturato nel perseguire un interesse particolare (una lingua straniera, una disciplina sportiva, lo studio di uno strumento musicale e così via). Una struttura talvolta aiuta a focalizzarsi e a realizzare che la disciplina e la pratica quotidiana portano ad avanzare meglio e più rapidamente e che diventare abili ed esperti in qualche campo è una esperienza gratificante.
L’importante non è la presenza o meno di struttura, ma la libertà di scegliere: un apprendimento strutturato liberamente scelto è ben diverso da un apprendimento strutturato imposto dall’esterno.
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«Come sarebbe a dire, che non mandate i vostri figli a scuola? Ma non è obbligatorio? E allora come fanno a imparare a leggere, a scrivere e a far di conto? E in che senso, imparano da soli? E la socializzazione?».
Queste domande nascono spontanee quando si affronta il tema dell’unschooling, e il libro che avete tra le mani cerca di fornire le risposte a partire dall’esperienza di chi ha fatto questa scelta per i propri figli.
L’apprendimento spontaneo in un ambiente familiare e sociale incoraggiante e ricco di stimoli, costituisce un valido percorso di istruzione, anzi di autoistruzione, in grado di sostituire quello scolastico. I bambini semplicemente continuano, come hanno fatto in millenni di evoluzione, a imparare da soli: sono biologicamente programmati per farlo e non ne possono fare a meno.
Le numerose esperienze di unschooling sparse per il mondo ci dimostrano che i bambini, anche senza un programma didattico prestabilito e imposto dall’esterno, sviluppano con successo le loro capacità in autonomia, seguendo i propri ritmi.
Rifacendosi a un nutrito corpus di studi sull’apprendimento, le neuroscienze e la psicologia dell’età evolutiva, questo libro racconta come e perché adottare l’unschooling, riportando con decisione al centro del dibattito sull’educazione i legittimi protagonisti: i bambini.
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