Nutrire o avvelenare? Qual è il ruolo del cibo nei nostri sistemi produttivi, sociali ed economici?
Una domanda dalla risposta apparentemente semplice. Eppure la sua stessa formulazione evidenzia una deriva a cui stiamo assistendo in tutto il mondo. “L’alimentazione – come spiega Vandana Shiva – sta emergendo come elemento centrale per il benessere; stiamo assistendo a un’epidemia di malattie croniche come il cancro e il diabete, malattie cardiovascolari e neurologiche, aumento dell’infertilità e dell’ipertensione. Nuove ricerche – ha sottolineato la scienziata indiana – dimostrano come la nostra salute sia strettamente collegata al modo in cui il nostro cibo è coltivato e trasformato; la salute della terra e la salute delle persone sono da considerarsi una sola cosa”.
Le grandi multinazionali sembrano però guadagnare un controllo sempre maggiore dell’intera catena di produzione e distribuzione massimalizzando i profitti privati senza tenere in conto gli evidenti, ed oramai accertati, danni per l’ambiente, per i lavoratori del settore e per i consumatori. Molte delle crisi sanitarie degli ultimi decenni, da quelle relative alla salute mentale fino ad arrivare all’emergenza tumori, sarebbero infatti correlate alla contaminazione ambientale e degli alimenti legata ai modelli di produzione industriale.
È allora necessario mettere in evidenza l’inscindibile legame fra alimentazione e salute, elaborare strategie globali per superare il modello di agricoltura industriale, favorire la convergenza e l’azione dei movimenti per l’agroecologia e per la salute pubblica intorno a una visione comune di sviluppo sostenibile, equo e inclusivo. Una nuova strategia globale è dunque necessaria per superare un sistema oramai insostenibile e rilanciare il modello agroecologico attraverso l’innovazione scientifica.
Ma come siamo arrivati a questa situazione?
La produzione agricola industriale ha conosciuto la sua età dell’oro durante la Rivoluzione Verde. A oltre cinquant’anni di distanza, possiamo affermare, supportati dagli stessi dati delle Nazioni Unite, che la Rivoluzione Verde ha fallito i suoi obiettivi. L’ex direttore generale della Fao, Graziano Da Silva, ha parlato, nell’ambito del recente Simposio sull’agroecologia, di un modello “esaurito”, che non ha risolto il problema della fame nel mondo, sofferta ancora da oltre 800 milioni di persone. Il mantra della produttività ad ogni costo, ha sottolineato, ha presentato un conto insostenibile dal punto di vista ambientale a causa del massiccio uso di fertilizzanti chimici e pesticidi che hanno contribuito alla contaminazione dei suoli, all’inquinamento delle falde acquifere e alla perdita della biodiversità.
Le conclusioni della Fao rappresentano il sigillo finale sul mito secondo il quale l’utilizzo di agrotossici sia necessario per sfamare la popolazione mondiale, mentre è oramai accertato come i problemi di salute associati alle sostanze chimiche presenti negli alimenti coprano l’intera catena del valore, dai campi alla tavola dei consumatori.
Il sistema di produzione agricola industriale ad alto input chimico si fonda sul paradigma produttivista, secondo cui per sfamare la crescente popolazione mondiale sarebbe necessario incrementare la produzione. Si tratta di un assunto oramai ampiamente contraddetto dai fatti. La globalizzazione economica e l’industrializzazione non hanno risolto il problema della fame nel mondo ma hanno aumentato gli sprechi. Circa un quarto del cibo prodotto viene perso lungo le maglie delle estese filiere produttive. Se tali sprechi venissero eliminati, si risparmierebbe il 24% dell’acqua attualmente utilizzata nella produzione, il 23% della terra coltivata e il 23% di fertilizzanti.
Nel mondo viene già prodotto abbastanza cibo per provvedere ai bisogni alimentari dell’intera popolazione mondiale, ma le persone che ne hanno maggiore necessità non lo ricevono a causa dell’iniquità del sistema di produzione e distribuzione. Il sistema agricolo industriale globale si è accaparrato circa il 75% delle terre arabili del pianeta, ma provvede appena al 30% del fabbisogno alimentare, costituito sostanzialmente da prodotti a scarsissimo valore nutrizionale e pesantemente contaminati da sostanze chimiche tossiche. L’80% della terra arabile del mondo, 1,5 miliardi di ettari, è coltivata in monocolture di pochi e uniformi prodotti di base che dipendono da sistemi di distribuzione centralizzati e da input intensivi di energia e acqua. Il 90% del mais e della soia è destinato alla produzione di biofuel e mangimi per animali. Secondo lo studio Agroecology and the design of climate change-resilient farming systems l’uniformità rende l’agricoltura industriale particolarmente vulnerabile agli agenti patogeni e alle variazioni climatiche. I costi di produzione nei sistemi di agricoltura chimica ed industriale sono al contempo più elevati del valore stesso degli output. Senza il supporto di immensi sussidi, non potrebbero sopravvivere.
A livello globale, le piccole aziende agricole producono il 70% del cibo che utilizziamo usando solo il 25% dei terreni. Ma i risultati delle strategie delle multinazionali sono ogni giorno più evidenti: i piccoli agricoltori stanno perdendo i loro mezzi di sopravvivenza, le popolazioni rurali vengono cacciate dalle loro terre per fare spazio alle monocolture intensive, la biodiversità sta scomparendo, l’inquinamento ambientale aumenta. Attraverso fusioni aggressive le grandi multinazionali stanno espandendo i loro mercati, aumentando contestualmente la loro influenza e la pressione su governi e istituzioni. Un processo di concentrazione che si rispecchia anche sui terreni agricoli: il numero delle aziende agricole diminuisce ma la loro estensione aumenta. Secondo Eurostat, tra il 2003 e il 2013 nell’Ue, è scomparsa più di un’azienda agricola su quattro. Negli ultimi 15 anni l’Europa ha perso più di 4 milioni di aziende agricole, 320 mila solo in Italia.
È il modello dell’agricoltura industriale, un’agricoltura senza contadini.
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L’ambiente in cui viviamo è soggetto a
numerose forme di contaminazione causate dal
modello agricolo industriale che si basa sull’
uso di pesticidi chimici. Le malattie non trasmissibili legate a fattori ambientali e all’alimentazione sono
un’emergenza globale. La
biodiversità, lo stesso ciclo della vita di cui facciamo parte, è sotto attacco. L’
industria dell’agribusiness rappresenta uno Stato a sé stante, sovranazionale e indipendente, dai confini indefiniti e dalla pervasività diffusa. È una nazione tossica e aggressiva: la Pesticide Nation.
È possibile rifiutare il futuro distopico impostoci da un gruppo di multinazionali i cui introiti e la cui influenza politica eccedono quelli della maggioranza degli Stati nazionali? Mettere a fuoco i confini della Pesticide Nation, identificare i suoi gerarchi, le sue strategie offensive e difensive, è il primo passo per riguadagnare il diritto a un ambiente incontaminato e a una sana alimentazione.
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