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Il ruolo delle api operaie

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Conosciamo meglio il ruolo delle api operaie per il funzionamento dell’alveare.
Le api operaie rappresentano l’interfaccia nei confronti del mondo esterno, raccolgono il nettare, l’acqua, il polline, la propoli, cercano dei nuovi nidi, costruiscono l’ossatura di cera, difendono l’insieme dagli attacchi esterni, mantengono la temperatura ottimale nell’arnia. Possiamo immaginare le api operaie come dei lunghi tentacoli filiformi (le traiettorie che tracciano in volo) che dall’esterno riportano incessantemente materiale verso la bocca (ingresso) dell’arnia.
Le api operaie nascono da un uovo fecondato, come la regina, ma a differenza di questa sono delle femmine incomplete, incapaci di riprodursi.
L’uovo, deposto perpendicolarmente al piano del favo il primo giorno, si inclina il secondo e si corica il terzo. Queste tre posizioni sono utili per determinare la presenza della regina anche senza vederla. Se vediamo un uovo perpendicolare la regina è viva ed è passata da poco, stessa considerazione con tempi diversi per le altre posizioni (due e tre giorni). Queste osservazioni, assieme a un controllo generale della regolarità della covata, assume un prezioso valore diagnostico.
Tre giorni da uovo, sei da larva con la celletta aperta. La larva viene nutrita per due giorni con pappa reale, un composto altamente proteico, poi con un miscuglio di acqua miele e polline. Solo le larve destinate a diventare regine continuano a ricevere invece la pappa reale come nutrimento per tutta la durata del loro sviluppo.
Isolata nella sua cella da un coperchio di cera porosa, per due giorni la larva filerà il bozzolo, muterà un’ultima volta e affronterà la metamorfosi finendo per aprire l’opercolo di cera come un barattolo di latta con l’apriscatole e uscire come insetto perfetto.
Emergendo si troverà a condividere la nascita con le operaie vicine, nate da uova deposte dalla regina, nei favi destinati alla covata, con movimenti regolari e concentrici.
La forma della covata è globulare: è il nido, risultato della febbrile attività di ovideposizione.
L’ape regina inizialmente immerge il capo nella cella prescelta per controllare che non sia già occupata da un uovo e poi, se libera, sorreggendosi con le zampe ai bordi. vi affonda l’addome per deporre.
Questa impeccabile architettura può essere completamente scompaginata dall’intervento dell’apicoltore, spostando telai o invertendo elementi. Modificare in tal modo la forma del nido non è una pratica auspicabile almeno per chi intende praticare l’apicoltura naturale.

Operaia, dall’uovo alla morte

Il ciclo di sviluppo di un’ape operaia, dalla deposizione dell’uovo all’età adulta è schematizzata nella figura.
La durata media della vita di un’ape dipende ovviamente da diversi fattori: epoca di deposizione dell’uovo, carico di lavoro, predatori, malattie, inquinamento, pesticidi. Mediamente si stima che la durata della vita di un’ape possa variare da 2 mesi, nella stagione del raccolto, a 4-5 nei mesi più freddi.
Dentro e fuori l’alveare le api svolgono delle mansioni scandite dallo sviluppo dei diversi tipi di organi che permettono loro di compiere vari lavori.
Spazzina, nutrice, ceraiola, guardiana e infine esploratrice e bottinatrice saranno i ruoli che l’ape operaia assumerà nella sua vita in sincronia con l’aumento della produzione di pappa reale, cera e veleno. Benché in condizioni normali la vita di un’operaia si dipani cronologicamente su questa sequenza di compiti, è stato osservato che in condizioni particolari le api possono ridistribuirsi le diverse mansioni a prescindere dall’età: in caso di necessità una giovane operaia può divenire bottinatrice poco dopo la nascita e un’anziana bottinatrice può tornare a essere nutrice.
L’ape spazzina si occupa della pulizia delle celle che devono contenere la covata o il miele, della lavorazione della propoli e dell’allontanamento dal nido delle spoglie di api e altri insetti morti.
L’ape diventa nutrice quando comincia a produrre pappa reale e può quindi nutrire le larve della covata.
Verso il sedicesimo giorno di vita l’ape comincia a secernere cera dalle ghiandole ceripare poste sotto l’addome e diventa una ceraiola. Il periodo più intenso per il lavoro delle ceraiole è in primavera quando il nettare e il polline abbondano e quindi c’è necessità di ampliare il nido. L’accrescimento dei favi si attua aggiungendo cera nella parte bassa, come avviene nelle cavità naturali. Quando le api “imbiancano”, quando cioè si notano costruzioni nuove e bianche nell’alveare è il momento di fornire spazio. I favi che verranno costruiti (in arnie senza fogli di cera stampati) saranno ripartiti in celle da operaia (che conterranno anche polline e miele), celle da fuco e poi, più avanti, celle da regina.
All’arrivo della bella stagione inizia l’espansione: la famiglia si allarga e noi dobbiamo seguirla, con i controlli e i materiali adatti ad agevolare l’aumento di volume. Con l’autunno la popolazione tenderà invece a diminuire e con essa lo spazio necessario e quindi i materiali occorrenti al sostentamento della famiglia. Mi piace immaginare ogni arnia come un organetto che si allarga in primavera e si restringe in inverno.
Durante il periodo della vita passato all’esterno, l’ape, nella sua qualità di esploratrice si farà guidare dall’odore dei fiori per scoprire aree di bottinatura, aree cioè di fioriture costanti dove potersi approvvigionare del nettare con una frequenza e una quantità rilevanti.
In questa attività, oltre che dal profumo percepito finemente grazie alle sue antenne (organi tattili e olfattivi contemporaneamente, un “tatto odoroso”), si farà guidare per l’avvicinamento ai nettari dal colore dei fiori. Le screziature e i colori dei fiori infatti sono “piste” per gli insetti prònubi che segnano la posizione dell’esatto atterraggio ai fini della riproduzione floreale.
Una volta individuata la fonte di nettare le prime api esploratrici ritorneranno all’alveare e comunicheranno la posizione, la qualità e il costo energetico (vento contrario/favorevole ecc.) perché possa essere raggiunta dalle api bottinatrici, quelle api cioè che eseguiranno la raccolta vera e propria senza avere partecipato alla scoperta.
La possibilità di inviare migliaia di sorelle alla raccolta è determinata dalla “danza” comunicativa o di reclutamento, scoperta da Karl Von Frisch, Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1973, con la quale le api riescono a fornire le informazioni per la localizzazione spaziale delle sorgenti di approvvigionamento (acqua, nettare, polline, propoli). È un sistema intelleggibile anche da un umano, basta che sia fornito di goniometro, cronometro e che possa osservare visivamente i movimenti della danza. L’informazione impossibile per noi da percepire è il tipo di nutrimento, che viene comunicato fornendo durante la danza un piccolo campione del nettare raccolto: le api spettatrici assaporano il campione e comprendono quale sostanza devono andare a cercare.

Le operaie hanno zampette “specializzate”, il primo paio serve per pulirsi le antenne (abbiamo detto organi dell’olfatto e del tatto), l’ultimo paio è dotato di cestella per trasportare il polline, il secondo paio porta su un lato una spina utilizzata al rientro nell’alveare, per staccare il polline dalla cestella.
Il raggio d’azione delle esploratrici si può spingere fino a 3 km, 30 ettari circa tutti intorno all’alveare. In realtà studi approfonditi hanno dimostrato che le api sono sensibili al parametro sforzo/guadagno, mete più vicine sono preferite e la media del tragitto si stabilizza intorno a 1 km.

La danza usata come mappa per le grandi distanze è la danza dell’addome, la danza circolare significa “cercate qui intorno” ed è interpretata in maniera diversa a seconda della razza d’appartenenza: per l’ape austriaca indica una distanza oltre i 100 metri e per quella italiana entro i 100 metri.
Tutti questi comportamenti sono resi possibili dalla memoria delle nostre api (ritenzione mnemonica). Parliamo di memoria delle api dal nostro punto di vista di allevatori visto che al momento della sciamatura le api dimenticano completamente la posizione dell’arnia d’origine. Questo significa che una volta acquisito lo sciame, sarà possibile spostarlo la sera stessa in una posizione qualunque rispetto a quella in cui è stato catturato. Un metro, dieci, cento, mille: non importa, per le api il ricordo ripartirà il giorno dopo. Si potrà al limite riposizionarlo, non volendo incrementare le arnie, anche sull’alveare da cui si è diviso, sapendo però che una regina morirà nell’unione (con una probabilità alta la vecchia regina).
Le famiglie perdono la memoria anche in seguito a un periodo di clausura di almeno 48 ore in un ambiente tranquillo e a bassa temperatura (una cantina ad esempio).
Dopo questo periodo si possono spostare secondo le nostre esigenze. Lo stesso avviene durante un periodo freddo in inverno: le api dopo alcuni giorni di immobilità totale possono essere dislocate all’interno dello stesso apiario. Dobbiamo avere l’accortezza, dopo queste manovre, di mettere un fascio di canne, dei rami fitti o altri impedimenti davanti all’ingresso dell’arnia. Le api prima di partire indugeranno nell’aggirare l’ostacolo memorizzando indelebilmente la nuova posizione.
La posizione, il colore e la forma dell’arnia vengono decifrati attraverso gli occhi composti dell’ape. Le api li usano per gli spostamenti esterni; all’interno dell’alveare, con pochissima luminosità, vengono utilizzati gli ocelli, tre occhi semplici adattissimi alla visione negli anfratti oscuri.
Le api di notte non volano e ti camminano addosso da tutte le parti. Abituate come sono a pressare il polline dentro le cellette con la testa, sono capaci di passare oltre gli elastici deboli e le maniche semichiuse, figuriamoci i pantaloni aperti in fondo. Se uno mantenesse la calma nessuna si sognerebbe di pungerci, accendere una luce le richiamerebbe tutte in un punto. Il problema quella volta fu il panico e una sequenza di gesti scomposti.
Durante il giorno le api volano sempre e, richiamate dallo scintillìo dei nostri denti e degli occhi dirigono l’azione di difesa verso questi punti per loro ben visibili. Sono attratte anche dall’emissione dell’anidride carbonica della nostra espirazione. Basta indossare una maschera a velo, o meglio un camiciotto da apicoltore, oltre ai guanti, per effettuare in totale sicurezza tutte le operazioni. Sono dei Dispositivi di Protezione Individuale e come per tutti gli altri lavori è importante indossarli sempre. Così come è anche importante che l’affumicatore sia sempre acceso.
In generale i movimenti bruschi, l’odore della traspirazione, i colori scuri stimolano la risposta difensiva delle api. In realtà emettere adrenalina durante una visita in apiario, cosa normalissima i primi tempi, veicola alle api un feromone che viene decodificato come “pronti a combattere”. La calma e l’abitudine saranno pertanto i migliori deterrenti.
Il pungiglione (apparato vulnerante) delle api operaie è un antichissimo ovodepositore modificato. I maschi ne sono sprovvisti.
La pericolosità della puntura dipende dalla quantità di veleno presente nel serbatoio, un’ape che ha già punto infliggerà una stilettata meno dolorosa. La puntura d’ape si riconosce dall’ultima parte di filamenti che rimangono nella nostra ferita (cosa che non succede alle vespe). La nostra pelle, infatti, si richiude sul pungiglione, che con la sua conformazione ad “amo da pesca” non permette all’ape di liberarsi e nello sforzo essa si provoca un evisceramento.
Il movimento di rimozione del pungiglione deve essere fatto lateralmente: schiacciandolo con le dita si provocherebbe la fuoriuscita totale del veleno.
Essere punti è cosa eccezionale ma deve essere messa in conto: per chi ci sta intorno è sempre meglio avere delle pillole di cortisone da sciogliere sotto la lingua in caso di bisogno. I più scrupolosi potranno portare con sé del cortisone iniettabile (con scadenza lunga), sappiate però che la copertura totale per ogni evenienza viene data soltanto dall’adrenalina che è l’unica sostanza in grado di salvare una persona in preda a shock anafilattico.

Articolo tratto dal libro Apicoltura biologica

Forte della lunga esperienza di apicoltore, l’autore propone un metodo molto innovativo basato sull’adozione di arnie di facile costruzione e di ancora più semplice gestione. Un’apicoltura «esten
siva» che, a differenza di quella convenzionale intensiva, riduce al minimo lo stress a carico delle api, limitando allo stretto necessario gli interventi sulle arnie.
È un’apicoltura a basso costo perché può essere praticata con arnie autocostruite realizzate con legname riciclato (come quello ricavato da pallet), ed ecologica perché non ricorre all’impiego di
farmaci di sintesi nella cura delle malattie e rispetta le esigenze etologiche delle api.
Le numerose illustrazioni che corredano il libro aiutano il lettore a fare propria una tecnica millenaria che ancor prima di rappresentare una possibile attività economica, costituisce una chiave unica per entrare in stretta sintonia con i cicli naturali e l’affascinante mondo delle api.

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