Vai al contenuto della pagina

Investire nel bambù: quali sono i rischi

homepage h2

Il bambù è una pianta in grado di decontaminare e stabilizzare i suoli, oltre che un materiale dalle caratteristiche straordinarie. Destano preoccupazione, tuttavia, le aziende che ne propongono la coltivazione in Italia come investimento molto redditizio o chi vede nelle piantagioni di bambù una strategia per combattere l’inquinamento. Alcuni esperti hanno riscontrato errori significativi nell’informazione.
Investire nel bambù: quali sono i rischi
Il bambù ha numerose proprietà e si presta a un’ampia varietà di utilizzi.
In genere, cresce molto velocemente e quindi assorbe rapidamente C02 dall’atmosfera. Con il suo esteso apparato radicale è in grado di stabilizzare e decontaminare i suoli, è anche molto resistente a parassiti e malattie, pur essendo gradito a diversi roditori.
I germogli (turioni) di alcune specie sono edibili, mentre le canne, come materiale da costruzione, hanno caratteristiche meccaniche straordinarie per resistenza e leggerezza. Può essere usato per realizzare travi, mobili, pavimenti e persino biciclette, pale eoliche o cosmetici.
Nei paesi d’origine, è utilizzato anche come foraggio e per produrre carta, tessuti e numerosi oggetti usa e getta.
C’è chi dice dunque che il bambù sia «il materiale del futuro». Come se, malgrado la grande varietà di ecosistemi e l’incredibile diversità botanica che caratterizza il nostro Pianeta, una sola pianta potesse offrire una soluzione universale adatta a tutti i problemi, i luoghi e i contesti.
In Italia, accanto a una consolidata tradizione vivaistica a scopo ornamentale, la coltivazione di bambù gigante della specie Phillostachys edulis (alias Phillostachys pubescens) a uso industriale è stata recentemente proposta come proficuo settore d’investimento ad agricoltori e cittadini, in grado di coniugare economia e ambiente. Ma alcuni esperti nutrono profondi dubbi sulla redditività del bambù italiano e mettono in guardia contro una possibile bolla speculativa.
Vediamone le ragioni principali.

Produttività

Una piantagione di bambù gigante necessita di un importante investimento iniziale ma, nella migliore delle ipotesi, diventa produttiva solo a partire dal quinto anno. Non esistono ancora dati precisi e attendibili sulla velocità di crescita e la produttività della pianta nel nostro territorio. Se è vero che, in genere, cresce molto velocemente, va messo in conto che le giovani canne sono tenere e prima di poter essere impiegate per usi strutturali devono appunto maturare per almeno cinque anni.
Il bambù gigante può resistere a periodi freddi e siccitosi, ma per proliferare richiede molta acqua, un terreno fertile e temperature elevate, fattori che, sottolinea Mario Rosato, ingegnere ambientale esperto di bambù, «si trovano difficilmente associati nel nostro paese».

Infrastrutture e richiesta

In Italia mancano anche le infrastrutture per lavorare il bambù, mentre la richiesta, per il momento, è abbastanza ridotta. «Solo una grande disponibilità di materia prima potrebbe giustificare gli investimenti necessari per realizzare adeguate infrastrutture industriali» osserva Tito Schiva, già direttore dell’Istituto sperimentale di floricoltura di Sanremo. D’altronde, per il momento, «l’utilizzazione di compensati di bambù a uso strutturale» ricorda Mario Rosato «ricade in un vuoto normativo che ne impedisce l’omologazione europea», mentre, dal punto di vista alimentare, evidenzia Schiva, «i germogli di Phyllostachis edulis dovrebbero competere, nel nostro territorio, con consolidate abitudini alimentari e numerosi ortaggi più nutritivi e saporiti».
Va inoltre ricordato che i procedimenti non inquinanti per produrre viscosa sono costosi, ragione per cui anche la viscosa di bambù è generalmente fabbricata in paesi con normative meno severe dove, tra l’altro, sono disponibili grandi quantità di bambù della specie Bambusa vulgaris, che offre un maggior rendimento per la fabbricazione dei tessuti.

Molta manodopera

Ma il principale problema economico di una filiera industriale di bambù made in Italy parrebbe essere il costo della manodopera. In effetti, la gestione di un bambuseto coltivato per rifornire l’industria edile e alimentare richiede molto lavoro e competenza. Non è possibile tagliare a raso come faremmo con un campo di mais o un pioppeto. Le canne crescono in modo disordinato e maturano in momenti diversi: vanno marcate, selezionate e raccolte a mano, una per una.
Tito Schiva sintetizza: «Nelle nostre condizioni pedoclimatiche e sociali, non è possibile riprodurre il modello industriale asiatico o brasiliano».

Costi e benefici per l’ambiente

Del resto, il bambù pone importanti problemi anche dal punto di vista ambientale. Innanzitutto si tratta di una nuova monocoltura. Inoltre, per prosperare, un bambuseto dovrebbe ricevere molta acqua e grandi apporti di azoto i quali, in Italia, sono regolamentati in quanto inquinanti: possono eutrofizzare le acque superficiali e sotterranee.
Va considerato anche che l’impiego del bambù per decontaminare acque reflue e terreni sarebbe incompatibile con l’utilizzo alimentare dei turioni mentre l’interesse del bambù come biomassa combustibile è molto relativo. «Nel contesto attuale in cui viviamo cambiamenti climatici accelerati» sottolinea Mario Rosato «pare poco saggio rimettere così rapidamente nell’atmosfera il carbonio immagazzinato dalla pianta». D’altronde, precisa Rosato, la capacità stessa del bambù di assorbire C02 e produrre ossigeno dipende dai fattori che influiscono sulla sua produttività: l’insolazione, le temperature, la quantità d’acqua e di nutrimenti disponibili nel terreno.

Impatto sulla nostra biodiversità

In tutta Europa, il bambù è una pianta introdotta dall’uomo e, come indicato dall’Osservatorio regionale della biodiversità della regione Lombardia, è molto resistente e non facilmente estirpabile. La maggiore preoccupazione, evidenzia il botanico Michele Lonati, è che le coltivazioni di bambù, se non dovessero rivelarsi abbastanza redditizie, potrebbero essere abbandonate e diffondersi per rizoma nelle aree circostanti, andando potenzialmente a impattare sugli habitat che confinano con le aree coltivate. «Per quanto non si espandano con rapidità paragonabili ad altre specie invasive» osserva il docente «è evidente che alcuni bambuseti di grosse dimensioni possono avere localmente un impatto negativo sulla flora autoctona: sotto i bambù c’è frequentemente poca luce e uno spesso strato di lettiera che inibisce la crescita delle piante erbacee di sottobosco».
Ad oggi, alcune specie di bambù sono state incluse nelle liste nere di diverse regioni italiane per preservare cautelativamente le aree caratterizzate da maggiore biodiversità. Queste liste, periodicamente aggiornate, enumerano le specie alloctone invasive che è vietato introdurre e coltivare nelle aree protette e che riceveranno priorità in caso di interventi di eradicazione.
Ulteriori ricerche saranno necessarie per valutare l’impatto del bambù sulla nostra biodiversità.
Non dimentichiamo infine che tutti i bambù, presentando impollinazione anemofila, non sono di alcun supporto per le nostre api.
____________________________________________________________________________________________________________________________

Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Novembre 2021

Visita www.terranuovalibri.it lo shop online di Terra Nuova

Leggi anche

Per eseguire una ricerca inserire almeno 3 caratteri

Il tuo account

Se sei abbonato/a alla rivista Terra Nuova, effettua il log-in con le credenziali del tuo account su www.terranuovalibri.it per accedere ai tuoi contenuti riservati.

Se vuoi creare un account gratuito o sottoscrivere un abbonamento, vai su www.terranuovalibri.it.
Subito per te offerte e vantaggi esclusivi per il tuo sostegno all'informazione indipendente!