Il dibattito su lavoro e didattica a distanza, specie dopo lo scoppio della pandemia, è molto acceso. Se, da un lato, è più che lecito dubitare della scuola via videoconferenza, dato che vi sono coinvolti i giovani, e spesso i bambini, che ancora necessitano di un’istruzione in presenza, dall’altro è più complesso contestare il lavoro in remoto.
Il dibattito su lavoro e didattica a distanza, specie dopo lo scoppio della pandemia, è molto acceso. Se, da un lato, è più che lecito dubitare della scuola via videoconferenza, dato che vi sono coinvolti i giovani, e spesso i bambini, che ancora necessitano di un’istruzione in presenza, dall’altro è più complesso contestare il lavoro in remoto.
La svolta verso il telelavoro non è di quelle da cui è facile tornare indietro. Trasformare la propria casa nel proprio posto di lavoro, oltre a essere una bella comodità, per gli orari flessibili e per il risparmio in termini di tempo per gli spostamenti e di soldi spesi in abbigliamento, ha numerosi impatti reali sull’ecosistema. Lavorare in remoto riduce anche il carico di traffico sulle strade e i rifiuti, e i suoi benefici sono abbastanza misurabili e significativi.
Vantaggi per tutti
Ai significativi vantaggi ambientali, vanno aggiunti anche quelli aziendali: l’ufficio virtuale consente alle aziende di risparmiare sui costi generali e di incrementare la fidelizzazione dei dipendenti. Attualmente, lavorare da casa significa ridurre le occasioni e i rischi di contagio da Covid-19. Ma significa anche liberare costosi posti di lavoro in azienda: ogni individuo che lavora a distanza è una persona in meno che deve utilizzare una risorsa di spazio aggiuntiva quando si reca in ufficio. Per questo le aziende che adottano piani di telelavoro sono da considerarsi vere innovatrici.
Per innovare occorre superare i luoghi comuni, come quello secondo cui i dipendenti che lavorano da casa sarebbero pigri. Recenti ricerche1 hanno dimostrato che la produttività aumenta rispetto a chi lavora da un ufficio fisico, e questo grazie al fatto che le occasioni di distrazione sono ridotte, ma anche grazie alla maggiore libertà di poter lavorare durante le ore che si considerano più produttive. Un altro studio recente2 ha rilevato che i dipendenti sarebbero disposti a sacrificare più del 10% dei loro stipendi per ottenere la flessibilità professionale fornita dal «lavoro da casa».
Le note dolenti
Insomma, il telelavoro ha solo vantaggi e pochi problemi? Tutt’altro, purtroppo. Dal punto di vista della cittadinanza, rischiamo di perdere davvero molto. Lavorare da casa può isolarci, farci perdere le relazioni con i colleghi, ridurre il nostro stipendio, portare disparità tra lavoratori in termini di disponibilità di spazi domestici per fini lavorativi. Ci sono perplessità anche dal punto di vista sindacale: il telelavoro potrebbe essere un modo surrettizio per aumentare gli orari senza retribuire gli straordinari. Il rischio di sfruttamento potrebbe essere ben maggiore, quindi, rispetto a quello dell’assenteismo.
Ma sono le implicazioni tecnologiche quelle che ci stanno più a cuore: questa innovazione dovrebbe essere attuata con strumenti open-source, come Jitsi3. Invece, sia sul lato didattico, che su quello lavorativo, si sente parlare solo di Google, Microsoft, Cisco, Zoom. E, come sappiamo bene, dare troppo potere a queste aziende non fa bene, né a noi, né alla nostra Terra.
Il telelavoro tout court, ovvero il lavorare solo da casa, potrebbe estremizzare tutti questi problemi. Lo smart working, invece, dovrebbe essere un meccanismo che alterna attività in ufficio e lavoro da casa. La pandemia, purtroppo, richiede che l’intera settimana sia lavorata da casa. Ma questa dovrebbe essere un’eccezione temporanea, verso un sistema intelligente che comporti anche il lavoro in ufficio e che permetta di cogliere tutti i vantaggi, senza subire le penalizzazioni di questa situazione.
Michele Bottari è esperto di tecnologia ed economia. Scrive su Terra Nuova e sui blog
veramente.org e
riusa.eu. È autore del libro Come sopravvivere all’era digitale (Terra Nuova Edizioni).
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Articolo tratto dalla rubrica
#Ecologia informatica
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