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Nomofobia: la paura di essere sconnessi

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La nomofobia è un fenomeno in crescita che coinvolge soprattutto i giovani e si lega alla dipendenza da internet. L’isolamento sociale, a cui si associa la nomofobia, porta a gravi difficoltà nelle relazioni, depressione, autolesionismo e atti di violenza. Vediamo di cosa si tratta nel dettaglio.
Nomofobia: la paura di essere sconnessi
Liberarsi dal mondo reale e asservire il mondo virtuale. Se questo era l’obiettivo di chi inventò i telefoni cellulari potremmo dire che ci è pienamente riuscito. Già nel 2012 quella per gli smartphone veniva definita la più grande dipendenza non da droghe del Ventunesimo secolo.
Oggi negli Stati Uniti si stima che il 66% degli adulti soffra di nomofobia, un termine di recente introduzione che designa la paura incontrollata di rimanere sconnessi dalla rete di telefonia mobile. Il termine, di provenienza anglosassone,
indica la «NO MObile PHone PhoBIA», una serie di sintomi legati alla perdita di connessione dal proprio strumento.
Secondo una ricerca comparsa sul Journal of Family Medicine and Primary Care, i sintomi principali sarebbero: respirazione interrotta, tremore, sudore, agitazione, disorientamento e tachicardia. Attualmente, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, uno degli strumenti più utilizzati da psichiatri, psicologi e medici di tutto il mondo, sia nella pratica clinica sia nell’ambito della ricerca, redatto dall’American Psychiatric Association, non riconosce la nomofobia come un disturbo. Tuttavia, diversi ricercatori continuano a spingere per la sua inclusione.
Qualche malevolo potrebbe obiettare che da un anno all’altro ci si diverta a inventare nuove malattie. Ma, purtroppo, la realtà in cui viviamo è molto prolifica in questo campo. La nomofobia è sempre più ricorrente, anche se accompagnata da altri fenomeni e da una generale predisposizione psicologica, come ansia sociale o stati di panico, che secondo un articolo comparso nel 2019 nel Journal of Family Medicine and Primary Care Trusted1 possono comparire prima dello sviluppo della nomofobia vera e propria.

Capire se siamo malati

Ci siamo illusi di poter controllare praticamente tutto ciò che riguarda la nostra vita dallo schermo di uno smartphone. Ma in realtà abbiamo finito per perdere il controllo sulla vita sociale e le relazioni. E se improvvisamente lo perdiamo? Se ci viene rubato? Se qualche malware si intrufola nei nostri dati? O, più semplicemente, un blackout energetico interrompesse la connessione con i ponti radio e le reti? L’ammontare del panico è commisurato all’investimento emotivo che abbiamo fatto sul telefono: se tutta la nostra vita gira attorno al mondo delle app, la perdita sarà vissuta come un trauma.
Come si riconoscono i nomofobici? Tendenzialmente sono persone molto ansiose. È un’ansia che si collega a molte eventualità: la perdita dello smartphone, la perdita di segnale o l’idea di avere le batterie scariche. Ma secondo i ricercatori, i nomofobici si inseriscono in una cornice psicologica predefinita: l’uso compulsivo del cellulare come meccanismo protettivo per evitare l’interazione sociale. A volte si equipaggiano persino di più telefoni cellulari e diversi caricabatteria per scongiurare il pericolo della disconnessione.
I nomofobici prediligono le interazioni virtuali ed evitano la comunicazione faccia a faccia. Spesso mantengono il telefono acceso e a portata di mano anche quando dormono e alcuni di loro guardano frequentemente lo schermo del telefono per evitare di perdere qualsiasi notifica.
Alcuni ricercatori sono più inclini a inquadrare il fenomeno all’interno di un meccanismo di dipendenza da cellulari, più che come una forma di fobia e ansia specifiche. Per altri si collega alla dipendenza da internet, il cui accesso può essere garantito anche mediante altri device, come tablet e computer. La sostanza però cambia di poco: siamo di fronte a uno scollegamento dalla vita reale.

L’effetto della pandemia

Potenzialmente siamo tutti coinvolti. Secondo il Digital Global Overview Report del 2022, sono su Internet quasi 51 milioni di italiani, corrispondenti all’84,3% della popolazione. Mentre le persone che usano i social in maniera attiva sono 43,2 milioni, vale a dire il 71,6%.
Nessuno ha mai insegnato davvero a questi milioni di utenti come utilizzare la tecnologia. Ma sicuramente non bisogna demonizzare Internet, né confondere l’uso pur ricorrente delle tecnologie con la dipendenza dalle relazioni virtuali. C’è un passaggio significativo da osservare che ci fa riconoscere la patologia: la nomofobia si innesca laddove si costruiscono relazioni quasi esclusivamente virtuali. Queste persone trascorrono la maggior parte del tempo all’interno di chat room, servizi di instant messaging o social network. Ci troviamo di fronte a un tipo di «sindrome da sovraconnessione» in cui si riducono le interazioni di tipo fisico. Un atteggiamento di difesa, in cui si costruiscono nuove barriere sociali, con un autoisolamento che ha un impatto significativo sulla salute e sul benessere psichico.
La pandemia in questo senso è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per i giovani sotto i venticinque anni, trovarsi a essere perennemente collegati a un pc o a uno smartphone ha rafforzato l’atteggiamento di isolamento sociale. Il tempo medio giornaliero trascorso su Internet durante la pandemia è aumentato a dismisura2. Studi accreditati mostrano che prima della pandemia il 13% degli adolescenti era dipendente, mentre già nel 2020, in piena emergenza Covid, abbiamo superato abbondantemente il 24%. All’aumentare del livello di dipendenza da Internet sono aumentati anche il livello di aggressività, depressione e impulsività autolesionistica. Si tratta di un rapporto bidirezionale di causa ed effetto. Uno studio europeo condotto su oltre 11 mila adolescenti, in ben undici paesi europei, ha mostrato che problemi comportamentali, comportamenti suicidi, iperattività, disattenzione, deterioramento delle relazioni con i coetanei, depressione e ansia erano disturbi comportamentali psicosociali che già predicevano la dipendenza da Internet3.

Il multitasking animale

Un illuminato pensatore di qualche secolo fa, se potesse osservarci, vedrebbe una massa di individui isolati che si connettono via etere, con la testa spiegata su piccoli rettangoli emettenti luce. Gente sola, che non trae più alcun beneficio dalla solitudine, perché si trova sempre disturbata da qualche ansia di connessione. Siamo immersi in un flusso di dati e di informazioni e sottoposti a un multitasking che ci fa eseguire diversi compiti elementari, schizzando da un input all’altro, cancellando il tempo del riposo e della riflessione.
Come spiega ottimamente Byun-Chul Han4, con il multitasking, l’abitudine molto diffusa oggi nel lavoro, come nella vita privata, a fare più cose contemporaneamente, siamo di fronte a una regressione. Questa predisposizione è già largamente diffusa tra gli animali in natura. È una tecnica dell’attenzione indispensabile per la sopravvivenza nell’habitat selvaggio. Un animale intento a nutrirsi deve svolgere contemporaneamente altri compiti, tra cui il principale è tenere alla larga gli altri predatori ed evitare di essere lui stesso divorato. L’animale, come l’uomo digitale e il suo multitasking di oggi, sarebbe cioè privo della facoltà della contemplazione. L’animale non sarebbe in grado di immergersi contemplativamente in ciò che ha di fronte perché, insieme a questo, deve rielaborare continuamente lo sfondo. «Non solo il multitasking, ma anche attività come i videogiochi generano un’attenzione diffusa ma superficiale, simile al modo in cui è vigile un animale selvatico» spiega Han5.
Quella rete che prometteva di colmare le distanze tra le persone, da un capo all’altro del globo, con il consumo di massa e la concentrazione dei big data nelle mani di un numero sempre più ristretto di provider multinazionali, si sta progressivamente rilevando, piuttosto, uno strumento atto a creare e a mantenere la distanza. Un blackout informatico cancellerebbe di colpo tutte le nostre conoscenze, le nostre foto e con esse i nostri ricordi.

Acquisire resilienza

L’uso eccessivo dello smartphone si lega ad altre forme simili di abuso legate alla tecnologia: la dipendenza da giochi online, l’uso problematico di social network e la dipendenza informatica. Tuttavia, gli smartphone sono concepiti come aggregati multifunzionali, che probabilmente portano a conseguenze più gravi. In altre parole, per chi usa lo smartphone è più difficile liberarsi anche dalla dipendenza da Internet. La strategia di uscita è una sorta di rieducazione che prevede l’acquisizione di maggiore resilienza.
Un recente studio realizzato in Cina6 mette in evidenza il fattore protettivo della resilienza psicologica rispetto alle dipendenze. L’evidenza suggerisce infatti che le persone resilienti hanno uno stato di salute mentale migliore, inclusa una maggiore capacità di autoregolamentazione. Anche i professionisti della salute mentale, secondo questo studio, «dovrebbero concentrarsi sulla formazione della resilienza psicologica e sulla capacità di affrontare gli eventi della vita piuttosto che enfatizzare eccessivamente la terapia comportamentale per diminuire le motivazioni degli utenti». Ma cominciare da una qualche forma di limitazione potrebbe sempre essere necessaria.
Cal Newport, professore di informatica alla Georgetown University, propone una sorta di minimalismo digitale, per limitare le distrazioni. Per un utilizzo più accorto degli smartphone bisogna fare un passo indietro e ripensare il nostro rapporto con la tecnologia in maniera attiva. Fra i consigli più semplici c’è quello di non usare il cellulare come sveglia e non portarlo mai addosso quando si è in casa. In fondo si tratta pur sempre di un oggetto e non di una protesi del nostro cervello7.
Note
1. Sudip Bhattacharya, Md Abu Bashar, Abhay Srivastava, Amarjeet Singh, «NOMOPHOBIA: NO MObile PHone PhoBIA», Journal of Family Medicine and Primary Care, Apr; 8(4): 1297–1300 (2019).
2. F. Ozturka, S. A. Alkaya, «Internet addiction and psychosocial problems among adolescents during the COVID-19 pandemic: A cross-sectional study», Archives of Psychiatric Nursing, 35(6), 595–601 (2021).
3. Michael Kaess et al, «Pathological Internet use among European adolescents: psychopathology and self-destructive behaviours», European Child & Adolescent Psychiatry, volume 23, pages 1093–1102 (2014).
4-5. Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo (2010).
6. Xi Shen, «Is psychological resilience a protective factor between motivations and excessive smartphone use?», Journal of Pacific Rim Psychology, February 8 (2021).
7. Cal Newport, Minimalismo digitale. Rimettere a fuoco la propria vita in un mondo pieno di distrazioni, Roi Edizioni (2021).
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Maggio 2022

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