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Orchidee sostenibili

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Non tutte le orchidee sono uguali. Non lo sono sia per qualità, che per impatto ambientale. Abbiamo esplorato questo variopinto mondo per capire meglio come si articola e individuare dei criteri affidabili che possano orientare i nostri acquisti.
Orchidee sostenibili
Eleganti, fantasiose, colorate, le orchidee tropicali sono diventate una presenza frequente e apprezzata nelle nostre case. Molti le tengono accanto a sé come dei fiori recisi, destinati quasi sicuramente a spegnersi. Altri invece imparano a prendersene cura (non è così difficile!) e, dopo i primi successi, sviluppano una grande passione che li porta gradualmente a circondarsi di nuove varietà e specie.
Ma cosa raccontano le orchidee del nostro modo di vivere? E cosa possiamo fare per rendere questa passione più sostenibile?

Uno specchio della nostra società

La grande diffusione di specie da serra calda, come le Phalaenopsis (da falena, perché i fiori ricordano, per forma, delle farfalle notturne), ci dice innanzitutto che le nostre case sono molto più calde di un tempo. Una rapida scorsa su Facebook mostra poi l’esistenza, solo in Italia, di un foltissimo numero di persone che si affidano ai social media e a Internet per condividere la propria passione e imparare a coltivarle.
Citiamo, a titolo di esempio, «Orchidee che passione!», gruppo creato nel 2011 che conta oggi circa 72.800 membri. Oppure ancora «Le orchidee», nato nel 2020, con circa 105.800 membri. Nelle loro pagine è possibile trovare indicazioni colturali molto esaustive e il flusso di informazioni è veramente straordinario.
I prezzi sempre più bassi parlano invece di un mercato globalizzato dove i grandi produttori olandesi con serre estesissime si sono potuti permettere di abbattere radicalmente i costi grazie all’enorme numero di piante commercializzate, arrivando a monopolizzare il mercato (oltre il 95% in Europa).
Secondo esperti del settore, in circa vent’anni la produzione europea di orchidee è più che triplicata, passando da circa 60 milioni nel 1999 ai 200 milioni attuali. Purtroppo, questo incremento è andato raramente a vantaggio dei nostri floricoltori, realtà in genere più piccole e artigianali che, tuttavia, continuano spesso a offrire piante di maggiore qualità.
La coltivazione delle Phalenopsis
La vita di moltissime piantine di orchidea inizia in laboratorio, dove i meristemi di numerose varietà e specie vengono clonati e poi fatti sviluppare in gelatina, in condizioni ambientali strettamente controllate. Le giovani piante vengono poi spostate nelle serre, che sono riscaldate oppure raffreddate a seconda del clima e del susseguirsi delle stagioni, in modo da ricreare il più possibile l’habitat naturale delle diverse specie.
Nel caso della maggior parte delle Phalaenopsis, le piante dovranno essere prima tenute a circa 28,5-30° C per numerosi mesi e in seguito portate a una temperatura di 18-19° C allo scopo di indurre la fioritura. Altre specie di orchidee richiedono anche quattro o cinque anni di coltivazione e le fioriture sono meno programmabili.
In Olanda, dove l’utilizzo di gas fossile per le serre continua a essere sovvenzionato dallo Stato, l’impatto ambientale delle serre riscaldate con combustibili fossili desta una crescente preoccupazione. In Europa, infatti, i Paesi Bassi sono ai primi posti per emissioni pro capite di C02 all’anno (dati 2019)!
In questo contesto, alcuni grandi produttori stanno cercando di rendere più sostenibile almeno una parte della loro produzione. Nel 2014, GreenBalanZ ha introdotto sul mercato delle orchidee Phalenopsys interamente biologiche e certificate ai sensi della legislazione dell’Unione europea (marchio «Pure bio»).
In tutte le serre, il problema dell’elevato fabbisogno energetico è stato risolto col ricorso al calore geotermico accumulato nel terreno durante l’estate, con un migliore isolamento termico e con l’utilizzo di energia proveniente da fonti rinnovabili. Tuttavia, per il momento, le orchidee bio, coltivate con fertilizzanti organici e tecniche fitosanitarie naturali, costituiscono solo una piccola parte della produzione dell’azienda (il 10%), ancora in fase di prova.

Anche Stolk Flora (col marchio «Your Natural Orchid»), ha risolto in modo analogo il problema del riscaldamento delle serre. Inoltre raccoglie e ricicla l’acqua piovana e privilegia l’utilizzo di prodotti naturali, pratiche che gli hanno valso una certificazione ambientale MPS, molto riconosciuta nel settore vivaistico.

Meglio le orchidee coltivate in Italia

Ma per ridurre le emissioni determinate dai trasporti e dal maggior riscaldamento e maggiore illuminazione artificiale richiesti per coltivare delle piante tropicali in Nord Europa, meglio sarebbe privilegiare direttamente i nostri floricoltori, i quali stanno adottando a loro volta fonti energetiche, modalità di irrigazione e di coltivazione meno impattanti.
Facciamo qualche esempio. In Alto Adige, Raffeiner produce, oltre alle Phalaenopsis, circa 200 varietà di orchidee ed è probabilmente l’unico grande floricoltore nel territorio italiano a seguire l’intero ciclo di produzione, a partire dalla clonazione delle piantine in laboratorio (marchio “Sudtirol Orchidee»). Le serre sono riscaldate tramite cippato e non vengono più utilizzati fitofarmaci. Nel Veneto, Menin (marchio «Menin – Da noi a voi»), che produce oltre 2 milioni di Phalaenopsis all’anno, si è dotato di impianto fotovoltaico e gruppo di cogenerazione, con recupero dei fumi. L’irrigazione avviene solo con acqua piovana che viene raccolta e stoccata in vista dell’utilizzo, mentre il clima è gestito da un sistema computerizzato che regola il riscaldamento e il raffreddamento, l’apertura delle finestre e, con l’ausilio di teli, previene sprechi di calore. Nella Piana di Albenga, in Liguria, Enrico Orchidee, un piccolo produttore specializzato, utilizza una centrale termica da biomassa per riscaldare le proprie serre, dove brucia legna proveniente dalle vicine Alpi marittime, mentre riesce a sopperire a parte del fabbisogno elettrico grazie a un impianto fotovoltaico (marchio «Enrico Orchidee»). Il suo tentativo di utilizzare vasi completamente biodegradabili in lolla di riso, purtroppo, non è stato premiato dal mercato e ha dovuto essere temporaneamente sospeso allo scopo di contenere i costi.
Per i piccoli e medi produttori italiani, malgrado la qualità delle piante, che sono fatte crescere meno rapidamente e in maggiore spazio e sono quindi più belle e robuste, e l’utilizzo di pratiche di coltivazione sempre più sostenibili, il costo di una certificazione ambientale risulta spesso troppo oneroso. La concorrenza olandese è feroce! Ma c’è anche chi potrebbe permetterselo e ha tuttavia maturato un certo scetticismo nei confronti delle reali garanzie offerte dalle certificazioni esistenti.
Purtroppo, la nostra legislazione non permette ancora di distinguere i produttori veri e propri dalle aziende che importano piante già pienamente sviluppate e fiorite. Per la legge italiana, una pianta importata che è incorsa in trasformazioni di forma
o in trasformazioni biologiche anche solo per essere stata bagnata e fertilizzata in serra per un periodo di tempo limitato, può essere formalmente considerata prodotta in Italia. Questa legge permette almeno di escludere dal «made in Italy» le piante importate e commercializzate immediatamente che si trovano spesso nella grande distribuzione.

La certificazione Cites

Per le specie botaniche rare, bisognerà infine verificare che l’importatore abbia una certificazione «Cites», a dimostrazione che le orchidee non provengano direttamente dal loro habitat naturale. Purtroppo, come per altre specie di piante (e anche di animali), le importazioni illegali hanno fortemente contribuito a depredare gli ecosistemi in cui crescono le orchidee esotiche e stanno minacciando di estinzione alcune specie.
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Giugno 2022

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