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Origini del giardino commestibile

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Un luogo protetto, utilizzato per la coltivazione di piante specifiche. Il giardino commestibile ha una lunga tradizione, che parte dal III millennio a.C.
Origini del giardino commestibile
Con il termine “giardino” si intende una luogo delimitato, protetto e utilizzato per la coltivazione di piante specifiche. Viene ideato innumerevoli volte lungo la storia umana, per le esigenze più disparate, come margine tra natura selvatica e zone edificate. Difficile ricercare una linearità di sviluppo di questa modalità, ma è interessante dare uno sguardo ad alcune descrizioni di giardini nelle varie epoche storiche e nei contesti più disparati, per rendersi conto di quanto la neccessità sia alla base di risposte diversificate e originali.
I primi spazi delimitati a vegetazione controllata, li troviamo sin dal III millennio a.C. nel vicino Oriente e in Egitto (Martinelli, 2017). Molti di questi spazi hanno valenze simboliche e religiose, connesse al senso del divino e sono posizionati, per lo più, nei pressi di luoghi o edifici relativi al culto.
In Siria, agli inizi del II millenio a.C. nascono i primi giardini regali. Il re d’Assiria, per onorare Addu, dio della tempesta, fa realizzare un giardino tutto di ginepri. E, un millennio più tardi, Sargon II crea un parco con tutte le piante importate dal regno degli Ittiti, appena conquistato. La funzione di questo speciale giardino, pare sia stata legata anche alla cura della persona e in particolare alla produzione di fiori, profumi, spezie, farmaci e incensi. Suo figlio, Sennacherib, da avvio alla realizzazione dei giardini di Ninive, all’epoca in cui si introduce il cotone e si inizia l’addomesticamento della vite. Con lui, il giardino acquista, dunque, valenze estetiche e ludiche. Sennacherib, infatti, fa costruire parchi “pubblici” a beneficio dei suoi sudditi, quasi ad affermare la volontà di ripristinare l’armonia naturale persa dalla costruzione dei primi grandi edifici della classe dominante.
Nel mondo arabo, il giardino o pairidaez, parola persiana da cui deriva il termine “paradiso”, rappresenta la capacità di migliorare la fertilità in aree caratterizzate da clima arido o semi-arido, dove la coltivazione risulta particolarmente difficile (Laureano, 1995). In questi giardini, grande è la produzione, che poi proseguirà anche dopo l’epoca romana, di spezie, aromi, rimedi curativi e cosmetici, che arricchiscono la via delle spezie.
Nell’Italia preromana, il giardino ha inizialmente funzione sacra. Già in Età del Bronzo, vi sono molti esempi di sacralizzazione di aree boschive, dove lo stesso bosco diventa oggetto di venerazione: il lucus. Il giardino o hortus, come zona delimitata e coltivata, anche in epoca romana, è strettamente connesso a funzioni religiose o a culti collettivi. I primi giardini li troviamo nei pressi di luoghi sacri o di aree destinate alla sepoltura e le piante presenti, legate alla simbologia dell’epoca, vengono in parte usate per i rituali. Si presentano come zone recintate, dove le piante sono disposte con senso euritmico a distanze regolari e sotto il continuo controllo dell’uomo (Martinelli, 2017).

In molte zone del mondo, e soprattutto in Africa sud-sahariana, sin dal Neolitico le colture dovevano essere necessariamente protette non solo dagli animali selvatici, ma anche da quelli allevati, sempre al pascolo durante i periodi siccitosi. Pertanto era solito che, attorno all’abitato, sorgessero piccoli giardini commestibili, coltivati solo durante il periodo delle piogge, alimentati delle acque di scolo e dai residui organici della comunità.
Ed è forse proprio in queste aree che diventa più evidente la frattura, ancora attuale, tra la cultura dei raccoglitori, che si inoltrano nel selvatico per procacciarsi cibo, quella degli allevatori che fanno trasformare dagli animali i vegetali in proteine di cui cibarsi e quella dei coltivatori che selezionano le piante per poi coltivarle. Questa stessa rottura porta, più avanti, alla cultura del commercio, che individua, oltre al produttore e al consumatore, altri due soggetti: il commerciante e il trasportatore.

Dalla rivoluzione industriale in poi, tutta la materia prima passa attraverso le industrie che raffinano e modificano il nostro cibo, con l’aggiunta di un altro attore: il “processatore”. È molto evidente ora, in epoca pandemica, grazie alla dilagante paura istituzionalizzata, che stiamo passando velocemente al rituale “sacro” del click: con solo un click il cibo viene consegnato a casa, con conseguenze sociali, ambientali e salutari disatrose. L’allontanamento sempre più sconsiderato dalla nostra fonte energetica non è del tutto percepito come una delle cause del disagio salutare che stiamo vivendo. Eppure, la bassa qualità del cibo raffinato, l’eccesso di sali, zuccheri e sostanze inquinanti aggiunte nella trasformazione, la modalità con la quale lo consumiamo, le quantità esagerate e la poca cura che dedichiamo all’alimentazione, sono alla base del diffuso indebolimento del sistema immunitario. Inoltre, oggi nelle nostre città, il suolo non ha più nessuna accezione legata alla produzione di cibo, bensì alla speculazione monetaria o al fine infrastrutturale. Rimangono solo i parchi a ricordarci molto vagamente la natura selvatica che un tempo era onnipresente e predominante.
Oggi, tutta la natura è profondamente addomesticata e controllata per poter svolgere una funzione di risveglio delle nostre menti. Per ritrovare, nella nostra cultura, un modello di città sostenibile e stimolante, con produzione di cibo e relazioni umane dirette, dobbiamo tornare indietro all’epoca gloriosa del Medioevo (Sertorio, 2002; Le Goff, 2017). È in quell’epoca che, caduto l’impero globalizzante, anche per ovvie ragioni di sperperi d’energia, le popolazioni si riorganizzano localmente, in monasteri, comunità e piccole città, resilienti agli assedi, con approvvigionamento in situ di acqua, produzione locale di cibo e riciclo di tutte le materie, all’interno delle mura.
La necessità di usare il suolo per la produzione di cibo nei pressi delle abitazioni, in luoghi protetti da animali selvatici, è da sempre presente in quasi tutte le culture e le epoche, ed è quanto di più sano ed economico possiamo considerare oggigiorno. Strabiliante e varia è, in Asia, come in Sud America, la produzione di cibo che spesso circonda le case dei villaggi, luoghi abitati anche da piccoli animali da cortile. Come avere un piccolo mercato a portata di mano, con alimenti non trattati, di stagione, sempre freschi e a costo zero.
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Articolo tratto dal libro Food Forest

Tradotto in italiano con «foresta o giardino commestibile», il termine food forest sta a indicare un sistema agricolo multiuso e multifunzionale, dove convivono alberi da legname, piante da frutto, erbe medicinali, leguminose, cereali e ortaggi in sinergia con le piante spontanee e gli animali del luogo. Che si tratti di un piccolo appezzamento o di una grande area rurale, l’obiettivo è quello di ricreare o ripristinare la più ampia biodiversità possibile, simile a quella che si può riscontrare in un ecosistema forestale.

Considerata ormai la nuova frontiera della permacultura, la food forest dà priorità alla coltivazione in consociazione di specie perenni o pluriannuali, in modo da ottenere elevate produzioni di cibo con il minimo dispendio di energia sotto forma di ore di lavoro e consumo di acqua, carburante, concimi e antiparassitari.
Forte della lunga esperienza professionale, maturata in Italia e all’estero, l’autrice illustra in dettaglio e con numerosi esempi pratici come realizzare una food forest anche nel nostro clima, caratterizzato da notevoli sbalzi termici e da scarsa disponibilità idrica.
 

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