La pasta è il piatto italiano per eccellenza, al quale non sapremmo rinunciare, ma è bene prestare attenzione al prodotto che acquistiamo.
Bandiera tricolore, piatto fumante di spaghetti bianchi, salsa rossa e basilico verde. Scritte ben in evidenza: «Pasta italiana», di Gragnano, di Napoli… Se ci si fermasse alla confezione «lato A» non ci sarebbero dubbi: la nostra pasta è il fiore all’occhiello del made in Italy. Ma le cose non sempre sono come sembrano e anche il piatto italiano per eccellenza può riservarci parecchi mal di pancia.
Soprattutto dal primo aprile 2020 quando è entrato in vigore l’articolo 26 del regolamento europeo 1169/2011 sull’indicazione in etichetta dell’origine degli ingredienti dei prodotti alimentari. Una norma europea che si mangia in un sol boccone i recenti decreti approvati dall’Italia che obbligano i produttori a riportare sulle confezioni di pasta, riso, pomodoro e latte l’origine della materia prima.
Non poca cosa insomma, visto che almeno il 50% del grano duro che consumiamo oggi è importato: oltre 2,3 milioni di tonnellate all’anno che arrivano perlopiù dal Canada o dai paesi dell’est Europa, luoghi in cui le normative sull’utilizzo dei pesticidi sono assai più permissive che in Italia (in Canada, per esempio, il grano viene trattato di routine con glifosato e altri agrotossici anche nella fase della pre-raccolta). Un motivo in più per fare molta attenzione nel ricercare la parolina «origine» sull’etichetta.
Attenzione: origine, non provenienza. Secondo la normativa, infatti, per luogo di provenienza s’intende «qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento», che potrebbe quindi non coincidere con il paese di origine, che è quello dove il prodotto è integralmente ottenuto (Regolamento Cee 2913/92). Scambiare «provenienza» e «origine» è un trucchetto spesso utilizzato dal marketing per confondere i potenziali acquirenti.
Come salvarsi dagli inganni del packaging?
Per esempio acquistando da produttori locali di cui si conosce la filiera in tutti i suoi aspetti: coltivazione, raccolta, macinatura, produzione. Così non solo ci si garantisce un prodotto sano e salutare, ma si supporta anche una piccola economia virtuosa.
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Articolo tratto dalla rubrica Cosa c’è dentro
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prodotti inutili e dannosi per la salute e per l’ambiente, filiera lunga,
inquinamento e sfruttamento, bisogni indotti da pubblicità, lunghe attese per trovare parcheggio, per scegliere, per pagare: questo è il supermercato. E chi pensa che rinunciarvi sia difficile, inutile o addirittura impossibile, dovrà ricredersi.
Vivere senza supermercato non solo è possibile ma è addirittura facile e piacevole: parola di chi lo ha fatto.
Entrare in relazione con i produttori, scoprire la provenienza e l’origine delle merci, informarsi sulle conseguenze, personali e globali, di ciò che si acquista e si consuma: vivere senza supermercato significa tutto questo e molto altro ancora. Significa fare una spesa ecologica, consapevole e responsabile, dando un nuovo valore ai propri gesti e un peso diverso ai propri soldi. Significa cambiare stile di vita e modo di pensare.
Vivere senza supermercato significa guadagnarci: in soldi, salute, relazioni e tempo. Una scelta alla portata di tutti.