Tonde e sottili, al naturale o aromatizzate, patatine & Co sono le protagoniste nel settore dedicato agli aperitivi del supermercato. Sulla loro scia, sono nati altri prodotti con ingredienti diversi (come il mais), ma caratteristiche simili: sono cioè anch’essi croccanti, appetitosi e dal sapore intenso. Ma le prime nate sono le patatine, quelle a bastoncino che si cucinano in casa.
Il tipo tondo e sottile che spopola da decenni, nacque in America verso fine ’800. Pare che un cuoco afroamericano, tale George Crum, si fosse offeso perché un cliente l’aveva accusato di fare bastoncini troppo spessi, lui che aveva la fama di tagliarli sottili! Così ebbe l’idea di realizzare dischetti sottili, tanto croccanti da non poterli infilzare con la forchetta. Altro che dispetto, il cliente ci andò a nozze e le chips, come furono chiamate, divennero subito famose.
Il maggiore impulso alla diffusione si ebbe con il sacchetto di carta oleata, inventato negli anni ’20 del ’900 e ideale per conservare il prodotto. Così, pian piano, le patatine in busta sono entrate a far parte della vita di molte persone. E le critiche non si sono fatte attendere.
Un’etichetta esemplare
Sulle pagine di Terra Nuova avrete spesso letto che le etichette migliori hanno pochi ingredienti. Beh, per le patatine classiche non è esattamente così, benché i componenti siano soltanto tre: patate, olio vegetale (di cui non sempre viene dichiarata l’origine) e sale.
Concentriamoci per prima cosa sui grassi
Come sappiamo, i prodotti convenzionali impiegano oli ottenuti tramite
raffinazione ad alte temperature, quindi grassi trans. I
prodotti bio usano invece oli di prima spremitura, ottimi per molti aspetti ma con un punto di fumo più basso. Perciò i risultati sono sostanzialmente gli stessi: lipidi danneggiati, nocivi per il fegato. «Le patatine contengono grassi in eccesso, saturi e trans» avverte
Michela Trevisan, biologa e autrice di diversi libri tra cui
Mangia sano e spendi poco (
Terra Nuova Edizioni) «che riducono la reattività dell’organismo e predispongono, poco alla volta, a malattie degenerative del sistema immunitario e cardiovascolare (infarto, ictus ecc.). Aumentano poi le LDL (colesterolo “cattivo”) circolanti, anche nei bambini».
I lipidi cattivi aumentano pure l’incidenza del sovrappeso e dell’obesità, e contribuiscono a ridurre le difese immunitarie, predisponendo allo sviluppo di intolleranze e allergie. Esistono prodotti light con meno grassi, ma la qualità non cambia sostanzialmente, senza contare che possiamo essere invogliati a consumarne di più, pensando che non siano poi così ingrassanti! E nelle patatine di lipidi non ne mangiamo proprio pochi: basti pensare che il prodotto light contiene mediamente il 27% di olio, che già di per sé non è poco.
Comunque sia, prosegue la Trevisan, «l’olio cotto irrita le mucose dell’apparato digerente fino a predisporle alla degenerazione». Certo, il fritto non uccide in poche mosse, ma consumarlo quotidianamente non è benefico. Scegliere i prodotti cotti in forno ridurrebbe almeno in parte i danni.
Sale e patate
Salvo poche eccezioni (per esempio un prodotto bio privo di sale), le patatine sono piuttosto salate. Mangiarle spesso vuol dire innanzitutto abituare il palato a un gusto intenso e sentire poi il bisogno di salare di più tutte le pietanze. L’abuso di sale, ricordiamolo, predispone all’ipertensione e all’irrigidimento dei tessuti. Quanto alle patate, queste sono considerate troppo spesso alla stregua di verdure, mentre sono piuttosto assimilabili ai carboidrati. Pur fornendo buone dosi di vitamine e minerali, sono acidificanti e hanno un elevato indice glicemico. Non sono da eliminare dalla tavola, ma da mangiare con cognizione di causa: al vapore (cotte con la buccia) o al forno, senza esagerare e sempre con una fonte proteica.
Bio e convenzionale
Il problema della formazione di sostanze tossiche è sostanzialmente lo stesso per bio e convenzionale. Certo, le patatine biologiche sono preparate con ingredienti non trattati chimicamente, e se aromatizzate contengono erbe, spezie ed estratto di lievito (purtroppo in alcuni casi anche destrosio e sciroppo di glucosio). Le aromatizzate convenzionali, invece, possono contenere aromi sintetici, esaltatori di sapidità (come il glutammato, il guanilato disodico o l’inosinato disodico, capaci di provocare reazioni allergiche), oltre a ingredienti come lattosio, proteine del latte, formaggio fuso.
Insomma, una certa differenza c’è, anche se il problema di fondo resta: patatine ed estrusi in genere (palline, cornetti ecc.) sono alimenti ricchi di grassi e contengono acroleina e acrilamide, due composti tossici, irritanti e potenzialmente cancerogeni per la mucosa di stomaco e intestino.
Acroleina e acrilamide
L’
acroleina si forma quando l’olio supera il punto di fumo. L’olio di girasole, spesso impiegato per la frittura delle patatine, ha un punto di fumo piuttosto basso, ma esiste anche un tipo detto oleico che ce l’ha più alto. Perciò il problema potrebbe essere in parte aggirato, ma non è detto che ne venga indicato l’uso in etichetta. L’
acrilamide è una sostanza che si è rivelata cancerogena per gli animali da laboratorio. Si forma durante la
cottura ad alta temperatura dei cibi ricchi di carboidrati, come appunto le patate. Il problema si pone anche per i prodotti da forno, come il pane e i grissini, ma è più ridotto. Infatti, spiega
Paolo Giordo, medico e autore di
Prostata: cure naturali e alimentazione (Terra Nuova Edizioni), «Nelle patatine fritte la tossicità è più elevata a causa della combustione nell’olio». Non è il caso di terrorizzarsi, ma certamente di fare un uso ragionato di questi prodotti.
Perchè creano dipendenza
Una ricerca1 ha dichiarato perché i cibi ricchi di grassi, come appunto le patatine, risultano tanto allettanti. Arrivati a contatto con la lingua, i grassi producono un segnale che raggiunge prima il cervello e poi un grosso nervo che arriva all’intestino, il vago.
Giunto nella profondità dei visceri, il segnale stimola la produzione di endocannabinoidi, sorta di droghe naturali che aumentano il desiderio di mangiare quel determinato cibo.
(1. Di Patrizio N., Astarita G., Schwartz G. et al, «An endocannabinoid signal in the gut controls dietary fat intake», Proceedings of the National Academy of Sciences, June 6, 2011).
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Articolo tratto dal mensile
Terra Nuova