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Troppa chemioterapia

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…è il titolo dell’editoriale con cui il British Medical Journal presenta il recentissimo studio secondo cui l’aumento della sopravvivenza a 5 anni dei malati di cancro non è merito dei chemioterapici.
A presentare lo studio del professor Peter Wise è la direttrice del British Medical Journal
(BMJ), Fiona Godlee1. «I malati di cancro vivono più a lungo di 40 anni fa. Ma quanto di questo miglioramento può essere attribuito ai trattamenti farmacologici? Non molto» scrive nell’editoriale dal titolo Too much chemotherapy con il quale invita tutti gli oncologi a leggere la documentazione pubblicata sulla rivista scientifica dal professor Wise2, già consulente del Charing Cross Hospital e della Imperial College School of Medicine di Londra.
 
La sopravvivenza
Wise prende dapprima in esame una meta-analisi che ha valutato il contributo della chemioterapia citotossica ai fini della sopravvivenza a 5 anni dei pazienti. Sono stati 250.000 gli adulti presi in esame, tutti con tumori solidi. Un effetto significativo della chemioterapia è stato dimostrato solo nei cancri ai testicoli, alla cervice, alle ovaie e nei linfomi, che tutti insieme costituiscono meno del 10% di tutti i casi di tumore.
Nel rimanente 90% dei malati (compresi quelli con cancro al polmone, alla prostata, al colon retto e al seno) i benefici si limitavano a circa tre mesi di sopravvivenza in più. Inoltre, prosegue Wise citando dati e statistiche, 14 regimi terapeutici a base di nuovi farmaci approvati dall’Agenzia europea del farmaco (Ema) su tumori solidi in persone adulte hanno portato appena 1,2 mesi di sopravvivenza in più. Ciò ha indotto Wise a concludere che «i nuovi farmaci non fanno meglio dei vecchi».
Un altro esempio è tratto dai dati americani: 48 regimi terapeutici approvati dalla Food and Drug Administration dal 2002 al 2014 hanno «regalato» ai malati un beneficio in termini di sopravvivenza di appena 2,1 mesi. Quindi, «i trattamenti farmacologici possono spiegare in minima parte il miglioramento del 20% di sopravvivenza a 5 anni che si è avuto». La diffusione della diagnosi precoce e altri trattamenti possono avere contribuito molto di più.
Wise mette poi il dito sulla piaga dei tantissimi, ormai la maggior parte, studi clinici finanziati dall’industria farmaceutica, sottolineando come molti farmaci approvati per il miglioramento della sopravvivenza si siano poi rivelati privi di questa efficacia.
 
Mancanza di informazione
Un’altra grave pecca che Wise sottolinea sul BMJ è la mancanza di informazione dei pazienti in merito alla reale efficacia dei farmaci e ai loro effetti collaterali potenzialmente molto gravi, compresa la morte, che può avvenire soprattutto nei primi mesi di terapia. «I malati non vengono nemmeno informati dell’aumentata possibilità per loro di morire in ospedale rispetto a chi riceve solo cure palliative» si legge ancora nello studio. «Questo è importante, poiché la maggior parte dei pazienti preferisce terminare i propri giorni a casa propria o in un hospice, piuttosto che in ospedale».
Inoltre secondo Wise i malati sovrastimano i benefici dei farmaci. «In un importante studio multicentrico, quasi il 75% di 1200 pazienti con cancro metastatico al colon retto e al polmone era convinto che il proprio tumore potesse essere curato con la chemioterapia. Eppure in queste situazioni la cura è di fatto sconosciuta.
In un altro studio emerge che tra medici e pazienti l’argomento della sopravvivenza viene discusso in modo appropriato solo nel 30% dei casi». Per approdare a un trattamento dei pazienti oncologici che si possa definire etico, secondo Wise occorre fornire ai malati informazioni accurate e imparziali e sottoporre loro un consenso informato corretto e trasparente. La conclusione è amara: il fatto che sia il mercato, e non la tutela della salute, a definire priorità e pratiche non va a beneficio dei malati oncologici.
 
Note
 
Articolo tratto dal numero di febbraio 2017 di Terra Nuova
 
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