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Diventare operatori di pace

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Arriva anche in Italia la disciplina universitaria che educa alla risoluzione dei conflitti: ecco i programmi, gli obiettivi, gli sbocchi professionali.
«Pace»: una parola abusata e spesso banalizzata, che esprime in realtà un concetto estremamente complesso e che si può iniziare a comprendere solo partendo dalla conflittualità innata in ciascuno di noi. «La conflittualità è una componente naturale, non possiamo pensare di eliminarla del tutto. Però possiamo fare in modo che non generi scontro, distruzione e violenza, ma sia un’occasione di incontro e produca qualcosa di nuovo, di positivo, di vantaggioso per entrambe le parti». Sono le parole di Giorgio Gallo, direttore del corso di laurea «Scienze per la pace» di Firenze.
Costruire la pace non è qualcosa che si fa solo con i buoni sentimenti, sono necessari strumenti ben affinati e conoscenze specifiche, tanto che in diversi paesi europei si stanno delineando nuove figure professionali, per sostenere una cultura della pace a partire dalla formazione universitaria.
A questo scopo, nel 2000 è nata a Firenze una laurea triennale, che va sotto il nome di «Operazioni di pace, gestione e mediazione dei conflitti», mentre a Pisa è stato costituito: «Scienze per la pace». «Si parte da una scommessa culturale: dimostrare che, se si vuole la pace, bisogna prepararla» afferma Enza Pellecchia, uno fra i docenti dei corsi all’Università di Pisa. «Pace non significa semplicemente assenza di guerra, bensì risoluzione dei conflitti in qualsiasi ambito, il che richiede una professionalità complessa e un percorso di studi fortemente interdisciplinare».
La figura dell’operatore di pace apre il campo ad una prospettiva professionale che possa agire concretamente e pienamente nel tessuto sociale per valorizzarne le risorse e trasformarne gli elementi di conflittualità e sofferenza. Significa anche affrontare gli insegnamenti tradizionali, sia umanistici che scientifici, in una chiave più specifica e mirata.
A materie come diritto, economia, statistica, sociologia, il corso unisce insegnamenti come: evoluzione delle scienze tra guerra e pace; storia delle relazioni di genere; etica e nuove tecnologie; teoria del conflitto e della mediazione; tecniche e strategie della democrazia partecipativa; psicologia sociale; psicologia della pace.
Ci sono alcuni laboratori che prevedono un’attività di gruppo ed una esercitazione più diretta. Alcuni esempi: relazioni interpersonali nonviolente, metodologia e formazione alla non-violenza, metodo maieutico di formazione alla pace, cooperazione decentrata, diritti umanitari, polizia internazionale. «Sono questi laboratori a dare un po’ la misura di quello che è il lavoro sul campo» spiega Antonella Sapio, docente di psicologia della pace all’Università di Firenze ed esperta in training formativi.
I docenti hanno anche un ruolo di tutor per gli studenti, che vengono incoraggiati a lavorare in gruppo e a sviluppare uno stile di lavoro solidale. «Va data una lettura al malessere che la gente oggi sperimenta e vive, che non sia quella dell’individuo rispetto a se stesso,» continua la
Sapio «ma un malessere che può e deve essere letto come condivisibile, con un linguaggio comune, che in tal modo può poi generare risposte collettive e formulare anche proposte costruttive alle istituzioni. Il problema che abbiamo oggi è proprio quello dell’impotenza delle persone di
fronte ad un malessere spesso incomprensibile, così come di fronte alla guerra o a tutto ciò che governa il mondo, così come il quotidiano.
Bisogna recuperare la capacità di essere soggetto ed artefice della propria vita e del proprio cambiamento, riconoscendo a se stessi, in quanto parti di una comunità estesa, un reale potere trasformativo; il lavoro per l’empowerment rappresenta, infatti, un terreno prezioso di intervento
dell’operatore di pace e richiede competenze specifiche, non ultime certamente quelle a carattere psicosociale; personalmente ritengo che queste nuove figure (gli operatori per la pace), ancora poco sperimentate, possano consentire di mettere in discussione e superare alcuni modelli tradizionali di lavoro psicosociale territoriale degli ultimi vent’anni.»
Ai laureati del corso triennale, alla fine del loro percorso di studio, si richiede innanzitutto una capacità di ascolto e di osservazione, necessarie a cogliere la nascita e lo sviluppo dei conflitti a vari livelli, in modo da creare così le condizioni per la loro trasformazione costruttiva: per questo sono necessarie competenze per la prevenzione, la mediazione, la negoziazione e la gestione dei conflitti. È necessario inoltre avere familiarità con i fenomeni della globalizzazione, conoscere l’inglese, un’altra lingua europea e una non europea, gestire e trasmettere informazioni, essere capaci di lavorare in gruppo e con le persone in genere, specie di cultura e lingua diversa dalla propria.
In generale, è fondamentale collegare la ricerca (storica, sociologica, antropologica, giuridica, economica ecc.) all’intervento operativo, sia per l’impostazione di un progetto (preventivamente) che per la valutazione della sua efficacia (a posteriori).
Per quanto riguarda gli sbocchi professionali ci sono diverse possibilità: i settori sono quelli della pubblica amministrazione, delle organizzazioni non governative e del terzo settore, le istituzioni educative, il sistema della cooperazione sociale e culturale, e le organizzazioni internazionali.
Tra figure professionali individuabili ci sono: il mediatore di conflitti; l’operatore di peace-keeping e della cooperazione; monitore dei diritti umani; osservatore elettorale; facilitatore dei processi di democratizzazione; coordinatore di azioni umanitarie; ricercatore della pace; formatore nel settore di educazione alla pace.
In particolare, «la figura del mediatore è qualcosa di molto diverso dalle figure professionali già esistenti» spiega Gallo. «Diverso da quello di avvocati e giuristi, diverso dall’arbitro, cui è data l’autorità di decidere al posto delle parti che hanno accettato di delegare a tale figura una parte del potere di scelta; diverso dal giudice di pace che ha il compito di riconoscere chi ha ragione e chi ha torto. Il compito del mediatore dei conflitti è piuttosto quello di cercare di capire quali sono gli interessi e le esigenze delle due parti, cercando di far scoprire alle diverse componenti che forse questi interessi possono produrre un punto d’incontro, cui magari le parti inizialmente non avevano pensato, vantaggioso per tutti.»
A livello istituzionale, si iniziano a delineare dei nuovi spazi: in Italia è già stata creata una segreteria di lavoro, che comprende tutto l’associazionismo, per la costituzione dei «Corpi Civili di pace» ed è stata costituita per la prima volta, all’interno del Ministero della difesa, una commissione di studio sulla difesa civile: questa è una spinta significativa rispetto alla maturazione di una legislazione ad hoc. «Naturalmente è una grossa scommessa» conclude Gallo. «Il processo è lungo, ma noi vogliamo arrivare in fondo. Penso che si possa cambiare le cose e che comunque vada fatto. Soprattutto non ci dobbiamo far paralizzare dal fatto che la realtà è troppo grande per essere cambiata».

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