Siamo in un’epoca di grande disagio, sempre più evidente: in pressoché tutte le fasce della popolazione assistiamo a un crescente malessere di tipo psicologico e sociale. Sono sempre più diffuse problematiche come crisi di panico, disturbi dell’alimentazione e del sonno, atti di autolesionismo, dipendenze sia affettive che da sostanze e da social media, depressione, fino alla sindrome cosiddetta hikikomori, che porta gli adolescenti a isolarsi completamente dal mondo rifuggendo ogni relazione.
L’aumento nel consumo di psicofarmaci è un segnale d’allarme: secondo il provider globale di dati sanitari Iqvia, il mercato in valore dei farmaci psicotropi è risultato in crescita del 2% dall’aprile 2018 al marzo 2019, assestandosi a 1.045 milioni di euro(1). Per gli antidepressivi si è registrato addirittura un raddoppio nel consumo tra il 2000 e il 2015. Secondo i dati di Aifa, Agenzia italiana del farmaco, nel 2017 il consumo di psicofarmaci utilizzati per combattere ansia, nevrosi, attacchi di panico e insonnia è cresciuto dell’8%: si consumano più benzodiazepine, vale a dire ansiolitici, ipnotici e sedativi, circa 50 dosi giornaliere ogni mille abitanti(2).
Quali, dunque, i bisogni così profondamente “non risposti” da poter giustificare un tale disagio? Quali le riflessioni da fare per comprendere a cosa possa essere dovuta questa “fame di amor di sé”, questo malessere esistenziale così pervasivo?
Dottoressa Favero e dottor Viviani, come interpretate questa situazione?
«In effetti è piuttosto allarmante. Anche noi, come molti altri, riteniamo che le condizioni sociali ed economiche in cui viviamo si stiano facendo sempre più insostenibili, generando le conseguenze indicate. Uno dei motivi fondamentali di questo stato di sofferenza è dovuto ai messaggi contraddittori che arrivano dal contesto sociale. Infatti, se da un lato ci troviamo a essere spinti ad avere successo, a emergere nella società a ogni costo, dall’altro riceviamo continuamente messaggi che ci scoraggiano, legati alla scarsità del lavoro, alla precarietà crescente, al venir meno delle reti di protezione sociale. Messaggi così contraddittori creano in noi uno stato di profondo disorientamento e spesso un sentimento di impotenza. Veniamo sollecitati a investire il più possibile su noi stessi, ma in realtà finiamo con il sentirci sempre più fragili e inadeguati a questa vita. Quindi, in un certo senso, possiamo dire che ci troviamo in un contesto sociale sempre più patologizzante. Un contributo per cambiare questa situazione è quello di rivedere completamente i valori che questa società ci propone, a partire dal valore che diamo alla nostra persona».
È per questo che sostenete l’importanza, anche nel libro di cui siete autori, di sviluppare un corretto sentimento di amore per se stessi?
«Oggi si parla tanto di questo, ma c’è molta confusione al riguardo. Si tende a confondere facilmente questo sentimento con l’individualismo e il narcisismo. E questo non ci aiuta ad affrontare la situazione che stiamo vivendo, anzi la rafforza e la consolida. Se vogliamo uscire da questa condizione patologica diffusa, sia a livello individuale che sociale, dobbiamo costruire una nuova cultura dell’amore di sé».
Dato l’individualismo dominante, non sarebbe più opportuno partire dal “noi” piuttosto che dall’ “io”?
«Si è visto che la persona che non è capace di amarsi non ha una base solida di autonomia e di libertà, è dominata dalle sue emozioni, può avere paura degli altri, del loro giudizio, e quindi tende a cercarne l’approvazione a qualsiasi costo. Allo stesso tempo può essere molto critica verso gli altri, come lo è verso se stessa, poco incline alla comprensione. Tutto questo impedisce di costruire delle relazioni positive con gli altri».
Che cosa intendete allora per “amordisé”?
«Abbiamo creato questo neologismo, amordisé, proprio perché, dopo un’attenta analisi, non abbiamo trovato definizioni che soddisfacessero meglio il sentimento che volevamo descrivere. Certo non siamo i primi a occuparci di questo tema, che ha radici antichissime. Già a partire dalla filosofia greca e in generale nelle varie tradizioni spirituali se ne sono date varie descrizioni e interpretazioni. Ma solo oggi, grazie alle conoscenze psicologiche e pedagogiche, ne abbiamo una conoscenza più completa. L’autentico amordisé è amore per la creatura che siamo in quanto tale, senza condizioni, semplicemente perché siamo, esistiamo. Da questo deriva un atteggiamento sincero di accettazione di sé, di incoraggiamento nei momenti in cui ci sentiamo fragili o sbagliati, in cui capiamo i nostri errori ma non ci condanniamo per questo. Quando siamo appagati per qualcosa di bello che abbiamo fatto od ottenuto, siamo contenti di noi stessi, la nostra autostima cresce, senza per questo diventare altezzosi o arroganti o vanitosi. Questo modo di essere è esattamente l’opposto di quello che invece ci viene richiesto. Nel pensiero dominante, mi amo e sono amato se sono piacente, popolare (come si dice oggi), se sono adeguato a tutte le situazioni, se ho successo. E se sono più capace degli altri, se prevalgo su di loro, se ho potere».
Che impatto può avere questo tipo di amore sulla società?
«Questo modo di amarci implica una critica radicale della società in cui viviamo e del pensiero dominante su cui si basa. Contrariamente a quel che si crede, non porta all’individualismo; al contrario, è la premessa per un autentico sentimento di comprensione e di empatia nei confronti degli altri. Ѐ la condizione imprescindibile per costruire rapporti umani significativi e una società solidale. Grazie a questa attitudine, si scopre che l’altro non è un’antagonista, ma è colui con cui condividiamo la vita; si scoprono l’altruismo e il piacere di collaborare a una prospettiva comune di miglioramento dell’esistenza. La nostra società ha bisogno di individui liberi e capaci di responsabilità, che non siano facilmente manipolabili e questo è possibile solo se le persone sviluppano fiducia in se stesse e nelle proprie capacità di modellare la società in base ai bisogni dell’umanità e non dell’economia o della finanza».
Perché è così difficile amare se stessi?
«Il primo ostacolo è sicuramente la scarsa consapevolezza di quanto abbiamo bisogno di questo amore. Fino a poco tempo fa, infatti, certe tradizioni religiose ed educative miravano alla mortificazione della personalità, per impedire che l’individuo diventasse presuntuoso, egoista, egocentrico. È solo nei primi del Novecento, con l’avvento della psicanalisi e della pedagogia montessoriana, che queste convinzioni sono state messe radicalmente in discussione, grazie alle scoperte sui danni dell’autoritarismo e sulla necessità di avere fiducia nelle potenzialità dell’essere umano. Purtroppo l’assimilazione di queste nuove idee è molto lenta e quindi il processo di cambiamento non è veloce come sarebbe auspicabile: tuttora molti adulti (genitori, educatori, insegnanti) rendono difficile lo sviluppo di un corretto rapporto con se stessi. L’idea dominante che l’amore per se stessi sia una cosa negativa ha creato serie conseguenze sul piano individuale, sul modo in cui tuttora diseduchiamo il bambino a un’autentica amorevolezza verso se stesso. Questo atteggiamento così mortificante, sommato alle condizioni sociali ed economiche di cui abbiamo detto, da un lato porta a sentirsi persone inadeguate e da un altro a sposare, per compensazione, l’ondata di narcisismo crescente voluto dalla società dei consumi e incoraggiato dai nuovi media. Quando, nonostante tutto questo, finalmente riconosciamo il bisogno di amarci e gli diciamo di sì, scopriamo la bellezza e la verità di questo progetto. Per molte persone è una decisione rivoluzionaria, che cambia radicalmente l’esistenza. Infatti, dedicare del tempo a liberare la mente da tutti quei condizionamenti, storici e famigliari, che ci impediscono di volere il nostro bene e prenderci cura di noi, può implicare scelte anche molto forti. Per qualcuno può voler dire chiudere una relazione significativa, ma che non ci fa bene, con un partner, con un amico, ma anche con un familiare; oppure dover lasciare un lavoro o un corso di studi, con le conseguenti ansie per il futuro e spesso le critiche di chi ci sta accanto. Altri, invece, scoprono la necessità di occuparsi amorevolmente del proprio corpo e devono lasciare una serie di abitudini consolidate, per cambiare il modo di nutrirsi, di dormire, per cercare il tempo di muoversi, camminare e quei minuti per chiudere gli occhi e respirare profondamente».
Vedete crescere la consapevolezza di questo bisogno di “amordisé” nelle persone che si rivolgono a voi?
«Sì, le persone ci chiedono aiuto su questa strada intuendone il potenziale e la necessità. Nelle attività di formazione e in quelle di psicoterapia, negli ultimi anni ci raccontano sempre più spesso che il lavoro di introspezione fa loro scoprire con stupore di avere gravi carenze nella capacità di volersi bene. E, naturalmente, ci chiedono di essere aiutati a superare questa importante difficoltà. Collaboriamo da tempo, confrontandoci spesso sulle tematiche che i nostri rispettivi lavori ci presentano, e abbiamo preso cuore questo disagio che le persone manifestano. Abbiamo riconosciuto che proprio la mancanza di amordisé è spesso un minimo comune denominatore, indipendente dall’età, dalla condizione sociale e dalle problematiche specifiche di ciascuno. Quando scopriamo che siamo noi i primi a non fare il nostro bene, dopo lo stupore, la rabbia e i rimpianti per il male che ci siamo fatti, spesso nasce la volontà di sanare queste carenze e questi vuoti che abbiamo dentro di noi. Cambia anche la percezione del nostro rapporto con gli altri: invece di colpevolizzare chi ci sta accanto per i nostri disagi e le nostre sofferenze, la consapevolezza che queste dipendono anche dal nostro insufficiente amordisé ci aiuta ad assumerci più responsabilità e a rasserenare le nostre relazioni. Per esempio, è molto comune che una persona che erroneamente ha poca stima delle sue qualità intellettuali possa aspettarsi e pretendere continue rassicurazioni dal partner, dagli amici, dai colleghi di lavoro e arrabbiarsi molto se queste non sono sufficienti. Dal momento in cui comprende che questa ansia e questa angoscia di non essere all’altezza dipendono prevalentemente da una sua inconsapevole disistima, può cercare di comprendere, imparare a guardarsi in modo più obiettivo e a rassicurarsi da solo e quindi a non avere più pretese e sentirsi frustrato nei rapporti con gli altri. Gran parte del nostro lavoro è proprio dedicato a far crescere questo processo meraviglioso, imparando a perdonarci per tutto quello che avremmo voluto e non siamo riusciti ad essere, a scoprire la nostra umanità, a far nascere questo miracolo che è l’amordisé e un nuovo sentimento di amicizia nei confronti del prossimo».
Possiamo considerare realistica la possibilità di un nuovo tipo di relazioni umane e sociali? La nostra epoca appare dominata dal pessimismo e dal disincanto; avete fiducia nel cambiamento?
«Noi sappiamo che nelle persone coesistono tante istanze diverse, anche egoistiche, aggressive e volte alla ricerca del potere sugli altri. L’essere umano è vocato alla felicità, ma ben presto incontra il dolore, la sofferenza e l’ostilità e questo lo porta a sviluppare la paura di ritrovarsi solo, abbondonato, impossibilitato a soddisfare i bisogni primari. Da queste profonde angosce nascono in noi le istanze più separative e conflittuali. Però abbiamo verificato che chi riesce ad avere un rapporto amorevole con se stesso e con gli altri è più felice, seppur non immune dal dolore. Questo perché l’essere umano si sente appagato quando si vuole bene, quando è libero e responsabile della propria vita, in comunione con ciò che lo circonda, mentre una persona che è in lotta con se stessa, che si sente sbagliata, si odia ed è in continuo conflitto con gli altri non può star bene e sentire la gioia di vivere. L’umanità tende naturalmente alla felicità, ma la felicità autentica è il risultato di un atteggiamento di amorevolezza verso se stessi e gli altri e di armonia con tutto l’universo». E quando saremo veramente in grado di amare noi stessi in questo modo, allora potremo sperimentare in prima persona le tante e profonde connessioni che ci legano agli altri e al pianeta e, anzi, la coincidenza fra la nostra stessa vita e la vita nella sua totalità. Si rafforzerà in noi la convinzione che l’amore per se stessi implichi necessariamente molto di più dell’occuparsi di sé. Esso richiede la cura del mondo di cui siamo parte, dal nostro vivere con gli altri alla protezione dello splendido pianeta in cui viviamo. L’amoredisé coincide con l’amore tutto.