Il Dalai Lama con Terra Nuova
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Il Dalai Lama con Terra Nuova
Le parole sagge e profonde del Dalai Lama, raccolte dopo la sua visita in Italia lo scorso 14-15 giugno. Domande e risposte per capire come rendere felice il mondo in cui viviamo.
“Dobbiamo sempre tenere in considerazione ciò che siamo realmente. Non siamo oggetti. Se la nostra vita fosse governata da meri principi meccanicistici, allora il semplice intervento di una macchina sarebbe sufficiente per alleviare tutte le nostre sofferenze e soddisfare ogni nostro bisogno. Tuttavia, poiché non siamo costituiti unicamente dalla materia, è un errore credere che la felicità dipenda esclusivamente da fattori esteriori. Dovremmo invece indagare sulle nostre origini e sulla nostra essenza, per scoprire le nostre reali necessità. Credo che nessuno sia in grado di vivere senza amore. Questo dimostra che, nonostante la direzione presa da alcune scuole di pensiero in epoca moderna e contemporanea, non possiamo pensare all’uomo come a una banale entità fisica. Nessun oggetto, per quanto esteticamente perfetto e costoso, ha la capacità di farci sentire amati, perché la nostra identità più profonda e il nostro vero carattere risiedono nella soggettività della mente”.
“Quando, nella nostra vita quotidiana, parliamo con qualcuno, se il nostro interlocutore esprime emozioni positive, lo ascoltiamo volentieri e interagiamo con entusiasmo; l’intera conversazione diventa più coinvolgente, anche se il tema in sé non ci interessa. Invece, se una persona è fredda o scontrosa, ci sentiamo a disagio e cerchiamo di congedarci il più rapidamente possibile. L’affetto e il rispetto per il prossimo sono essenziali in ogni ambito della nostra vita, dal più ordinario al più importante”.
A tu per tu con il Dalai Lama: domande e risposte
Io mi considero prima di tutto un semplice monaco buddhista. È quello che sento veramente di essere. Il Dalai Lama, come governatore temporale, è un’istituzione creata dall’uomo e finché le persone accetteranno il Dalai Lama, accetteranno me. Essere un monaco invece è qualcosa che appartiene a me, lo sento nel profondo, persino nei miei sogni. Quindi mi ritengo soprattutto una persona religiosa: nella mia vita quotidiana, passo l’ottanta per cento del mio tempo in attività spirituali; il tempo restante lo dedico al Tibet nel suo insieme. Riguardo alla politica, non ho un’educazione moderna, solo un po’ di esperienza. La mia è una bella responsabilità per una persona non proprio preparatissima!
Il fatto che l’istituzione del Dalai Lama rimanga o meno dipende interamente dalla volontà del popolo tibetano. Sono stato molto chiaro su questo già nel 1969. Anche nel ’63, dopo quattro anni di esilio, abbiamo abbozzato una costituzione per il futuro Tibet basata su un sistema democratico, dove si afferma chiaramente che il potere del Dalai Lama può essere rimosso da un voto di maggioranza di due terzi dei membri dell’Assemblea. Al momento, l’istituzione del Dalai Lama è utile alla cultura tibetana e al suo popolo. Quindi, se morissi oggi, credo che il popolo tibetano sceglierebbe di avere un altro Dalai Lama. In futuro, se la situazione cambierà e tale istituzione non sarà più rilevante o utile, essa cesserà di esistere. Personalmente penso che fino a oggi abbia avuto un ruolo importante.
Sì, rimango ottimista. La Cina si trova in un processo di cambiamento ed è già molto diversa rispetto a dieci o vent’anni fa: non è più isolata, ma parte di una comunità mondiale. L’interdipendenza globale, specialmente in termini economici e ambientali, rende impossibile alle nazioni di rimanere isolate. Del resto io non cerco una separazione dalla Cina. Sono votato a una «via di mezzo», in cui il Tibet possa rimanere all’interno della Repubblica Popolare Cinese, mantenendo però una forte autonomia. Credo fermamente che questo porterebbe beneficio sia ai tibetani che ai cinesi. Noi tibetani saremo in grado di promuovere lo sviluppo del Tibet con l’aiuto della Cina, preservando al contempo la nostra cultura unica, che include nche la spiritualità, e il nostro ambiente delicato. Risolvendo pacificamente la questione tibetana, la Cina sarà in grado di rafforzare la sua stessa unità e stabilità.
In generale, dico sempre di avere tre missioni nella vita. In primo luogo, a livello di essere umano, mi impegno a promuovere valori come la compassione, il perdono, la tolleranza, l’autorealizzazione e l’autodisciplina. Vogliamo tutti la felicità, così come non vogliamo la sofferenza, e anche coloro che non credono nella religione riconoscono l’importanza di questi valori nel rendere la loro vita più felice. Il mio impegno è quello di parlare dell’importanza di questi valori e di condividerli con tutti coloro che incontro. La mia seconda missione, quale monaco e praticante, è la promozione dell’armonia e della comprensione tra le diverse tradizioni religiose. Nonostante le differenze filosofiche, tutte le grandi religioni mondiali hanno lo stesso potenziale di creare essere umani migliori. È quindi importante per tutte le tradizioni religiose rispettarsi a vicenda e riconoscere il reciproco valore. Infine, io sono un tibetano, e porto il nome del Dalai Lama. I tibetani hanno fiducia in me. La mia terza missione è quindi legata inevitabilmente alla questione tibetana. Ho la responsabilità di agire come libero portavoce dei tibetani nella loro lotta per la giustizia. Questa terza missione potrà dirsi compiuta nel momento in cui verrà trovata una soluzione per tibetani e cinesi a beneficio di entrambe le parti; gli altri due impegni invece li porterò avanti fino al mio ultimo respiro.
Per quanto riguarda l’esperienza religiosa direi: una certa comprensione dello shunya (vacuità, mancanza di un sé indipendente), un po’ di sentimento, un po’ di esperienza e poi soprattutto la pratica del bodhichitta, l’altruismo. Questo mi ha aiutato tanto, per certi versi si potrebbe dire che mi ha portato a diventare una persona nuova, un uomo nuovo, anche se sto ancora cercando di migliorare. Tutto questo mi dà forza interiore, coraggio e facilità ad accettare le situazioni. L’altruismo è una delle esperienze più importanti.
Essere un rifugiato è una situazione disperata e pericolosa. Allo stesso tempo, porta tutti a fare i conti con la realtà. Non è una condizione in cui si può fingere che le cose siano belle. In tempi di pace tutto fila liscio, almeno apparentemente: se c’è un problema le persone possono anche fare finta di niente. In una situazione di pericolo, quando avviene un cambiamento drammatico, non ha proprio senso fare finta che tutto vada bene: devi accettare che il male è male. Quando ho lasciato il Norbulingka il pericolo era concreto. Siamo passati molto vicino alle caserme cinesi, dall’altra parte del fiume c’era un posto di blocco. Due o tre settimane prima di partire ero stato avvertito che i cinesi erano pronti ad attaccarci, era solo questione di giorni, di ore.
Come dice lo Shantideva, se il sacro Buddha non può accontentare tutti gli esseri senzienti, come potrei pensare di farlo io? Anche un essere illuminato, con una conoscenza e un potere infiniti e il desiderio di salvare gli altri dalla sofferenza, non può comunque eliminare il karma individuale di ogni essere vivente.
È questo pensiero che le impedisce di essere sopraffatto quando vede la sofferenza di sei milioni di tibetani? La mia attenzione è diretta a tutti gli esseri senzienti. Non c’è dubbio però che, a un secondo livello, sono portato ad aiutare il popolo tibetano. Se un problema è risolvibile, se una situazione è tale che tu possa fare qualcosa, non c’è bisogno di preoccuparsi. Se non è risolvibile, non ha comunque senso preoccuparsi. Non ci sono benefici nel preoccuparsi in nessun caso. Lo dicono in molti, ma sono pochi a seguire davvero questo principio nella loro vita.
È il risultato della pratica interiore. In una prospettiva più ampia, la sofferenza ci sarà sempre. A un certo livello, ti devi scontrare per forza con gli effetti delle azioni sfavorevoli che hai commesso, con il corpo, con la parola, con la mente. Poi c’è il fatto che la tua stessa natura è una natura di sofferenza. E questa sofferenza è fatta di molti fattori. Per quanto riguarda l’entità stessa che produce sofferenza, come ho già detto, se è risolvibile, non c’è motivo di preoccuparsi; se non è risolvibile, preoccuparsi non serve comunque a niente. Per quanto riguarda invece la causa, la sofferenza è basata su azioni negative accumulate nel passato da noi stessi e da nessun altro. Questi karma non vanno sprecati, porteranno il loro frutto. Non ci imbatteremo negli effetti delle azioni che non abbiamo commesso. Infine, riguardo alla natura stessa della sofferenza, essa fa parte della natura delle aggregazioni di mente e corpo. Finché hai il corpo e la mente, sei suscettibile alla sofferenza. Da un punto di vista profondo, quando non abbiamo la nostra indipendenza e viviamo in un paese che non è il nostro, proviamo un certo tipo di sofferenza, ma quando torneremo in Tibet guadagnando la nostra indipendenza, allora ci saranno altri tipi di sofferenza. Le cose stanno così. Potreste pensare che io sia pessimista, ma non lo sono. Questo è il modo in cui affrontiamo le situazioni attraverso l’insegnamento buddhista. Quando in un giorno vennero uccisi cinquantamila persone del clan Shakya, il loro capo Shakyamuni Buddha non soffrì per niente. Si appoggiò a un albero e disse: «Sono un po’ triste oggi, perché cinquantamila persone del mio clan sono state uccise». Ma lui stesso non ne venne condizionato. Così, vedi? [Ride]. Questa è stata la causa e l’effetto del loro karma. Non c’era niente che lui potesse fare per loro. Questo tipo di pensieri mi rendono più forte, più attivo. Non si tratta affatto di perdere la propria forza mentale o volontà di fronte alla natura pervasiva della sofferenza.