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L’empatia si impara e le relazioni cambiano: ecco come

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Ne abbiamo tutti bisogno per costruire relazioni positive, per accogliere e non respingere, per immedesimarci nell’altro e vincere gli egoismi. Si può imparare e c’è chi ha già cominciato.
Al diciannovesimo posto nel mondo per “vocazione all’empatia”: l’Italia non brilla ma nemmeno sfigura nella classifica stilata da un team di psicologi americani e pubblicata sul Journal of cross-cultural psychology(1). Su 63 nazioni prese in esame, per un campione complessivo di circa 105mila persone adulte, il nostro paese si colloca in una posizione intermedia che comunque lascia intendere come ci siano margini di miglioramento. In testa alla lista ci sono Ecuador, Arabia Saudita, Perù, Danimarca e Emirati Arabi; fanalini di coda Lituania, Venezuela, Estonia, Polonia e Bulgaria.
A prima vista, la collocazione nei primi posti di paesi come Emirati Arabi e Arabia Saudita potrebbe destare qualche perplessità se si pensa, per esempio, alla condizione della donna; così come qualche riserva potrebbe destarla il fatto che gli Stati Uniti, con le ampie schiere di cittadini armati e una particolare «predisposizione» alla guerra nel mondo siano piazzati in ottima posizione. «Sì, è vero, potrebbe esserci qualche perplessità» spiega il primo firmatario dell’articolo, Bill Chopik, docente alla Michigan State University. «Ne abbiamo discusso insieme, io e gli altri co- autori, per capire quanto fosse etica la pubblicazione dell’articolo. Ma non si deve perdere di vista il fatto che esistono molti fattori che sono premessa all’empatia e penso che sia miope focalizzarsi su un solo aspetto di un dato paese, squalificando tutti coloro che ci vivono. Peraltro molte delle azioni negative che si rimproverano a certe nazioni sono perpetrate dai governi, non dalla popolazione». Chopik sottolinea poi come nella classifica non si sia puntato su fattori che hanno a che fare con le condizioni economiche, che peraltro possono mutare nel tempo, bensì su elementi come la felicità, la condivisione, la personalità. E certi paesi hanno preso sul serio questo impegno, come la Danimarca per esempio, che ha introdotto nelle scuole l’ora di empatia(2), una volta alla settimana. L’hanno chiamata “Klassens tid”, cioè l’ora di classe: i bambini imparano ad ascoltare gli altri, a trattare i problemi da tutte le angolazioni e a maturare un forte spirito di gruppo. Il tutto mentre mangiano una torta fatta con le loro mani. Per ora in Italia non c’è nulla di analogo, anche se sono sempre più frequenti i progetti scolastici intorno a questo tema.

Cos’è l’empatia?
Cosa smuove in noi e nell’altro? Come modifica le relazioni? «Già non attendere’ io tua dimanda, s’io m’intuassi come tu t’immii»: Dante Alighieri è il probabile teorico pioniere su questo fronte, bisognerebbe farne tesoro. Nel IX canto del suo Paradiso inventa neologismi che dipingono l’empatia come su una tela. Ossia, dice, rivolgendosi all’anima beata di Folco da Marsiglia, che non avrebbe certo bisogno di attendere la sua domanda se solo potesse penetrare nel suo pensiero come lui riesce a fare con quello di Dante. L’empatia è una forma di accoglienza dell’altro, attraverso la quale offriamo le cose più preziose che possono scambiarsi due esseri umani: tempo e attenzione. Oltre al nostro ascolto, implica la nostra immediata apertura, la nostra attenzione a livello non-verbale e la nostra disponibilità energetica. «In senso più ampio, possiamo anche definire l’empatia come un momento di pausa durante il quale ci connettiamo al movimento della vita» spiega Jean Philippe Faure, svizzero, formatore nell’ambito della comunicazione non violenta e autore del libro “Empatia. Al cuore della comunicazione non violenta”. «Questa pausa crea una connessione profonda e totale. Fino a quando sussiste, non vi è separazione tra colui che dona e colui che riceve attenzione».
Un bisogno fondamentale
«L’empatia è uno dei bisogni fondamentali comuni a tutti gli esseri umani. Sfortunatamente è anche, insieme al bisogno di essere toccati, uno dei più ignorati nella nostra cultura occidentale. Siamo quindi in molti ad aver accumulato un enorme carico di frustrazione che cerchiamo di gestire a volte in modo maldestro. Insultare, picchiare, denigrare, ricattare, far sentire in colpa, sono tutte azioni indirette che mettiamo in atto per esprimere questo malessere. Si può “guarire” instaurando una connessione privilegiata con l’altro e per farlo bisogna sentirsi completamente liberi di essere se stessi, liberi dall’idea di dover dare qualcosa e aperti ad arricchirsi nella consapevolezza dell’interdipendenza». Ci riescono i bambini più spesso degli adulti ed è bene coltivare e preservare quell’empatia innata che hanno fin dalla nascita, la capacità di essere se stessi e gli altri nello stesso tempo, di capire e farsi capire, di sorridere e farsi sorridere.
«Nel rapporto genitori-figli, l’empatia nutre bisogni elementari di attenzione, considerazione e fiducia» prosegue Faure. «Connettendosi su questo piano, chi ascolta dona al rapporto la propria presenza e chi è ascoltato la propria accoglienza. I momenti di empatia sono tali perché non hanno condizioni, pressioni, istruzioni; i membri della famiglia vanno gli uni incontro agli altri».
La mediazione
Diventa importante, e delicatissimo, anche il ruolo di mediazione che genitori e insegnanti possono avere nei confronti dei bambini. «Si tratta di aiutare due persone o due gruppi a trovare un terreno d’intesa grazie a una connessione empatica. Porto un esempio da me vissuto in quanto genitore il giorno in cui ho accompagnato in gita scolastica la classe di mio figlio Adrien. Una delle alunne si è lamentata di essere stata spinta da mio figlio. L’ho ascoltata per un po’. Era molto agitata, sosteneva di essere stata infastidita da vari bambini uno dopo l’altro e di non farcela più. Allora ho chiamato Adrien, gli ho detto che ero molto colpito da quel che provava la sua compagna e gli ho chiesto se era disposto a chiarirsi con lei. Ha accettato, anche se non molto entusiasta all’idea di trovarsi sul banco degli imputati. Lei ha continuato a sfogarsi per altri due minuti e noi ci siamo sforzati di accogliere il suo malessere. Poi è arrivata l’insegnante, allarmata dal pianto, e le ha chiesto cosa non andava con Adrien. Lei ha risposto che era tutto risolto. Io non ho mai parlato di mediazione, nessuno dei bambini l’ha chiesta, tuttavia ne abbiamo vissuta una: è bastato offrire attenzione».
Con l’empatia, uno dei doni che offriamo al nostro interlocutore è la capacità di non lasciarci travolgere dalle sue emozioni ma di comprenderle. Ed è grazie a questo che possiamo garantire la capacità di dare accoglienza. «Si attiva la forza di compassione che ci permette di connetterci all’altro senza identificarci con lui» prosegue Faure. Oggi più che mai c’è bisogno di empatia, per imparare non solo a guardarsi intorno ma a farlo con la consapevolezza e l’assenza di pregiudizi di chi accoglie, non respinge.
 

La pratica nel quotidiano

Ci sono alcuni suggerimenti che si possono tenere presenti per “allenarci” all’ascolto di noi stessi e degli altri e quindi per realizzare connessioni empatiche nella nostra vita quotidiana. Ecco alcuni esempi trattai dal libro “Empatia. Al cuore della comunicazione non violenta” .
Accoglienza non verbale. Quando ricevete un’informazione che vi emoziona, fermatevi, fate una pausa, poi cercate di individuare in quale punto del vostro corpo è stata registrata questa informazione. C’è un punto in cui quel che provate si modifica? Cercate di notarlo senza commentare. Lo scopo di questo esercizio è accrescere la nostra capacità di usare gli indicatori sensoriali
Lasciarsi sorprendere da quel che si prova. Per strada, sui mezzi di trasporto pubblico, quando sentite una frase che vi sconvolge: mettete in pratica l’esercizio precedente; traducete le vostre sensazioni in termini di sentimenti e bisogni; poi cercate di mettervi fisicamenteal posto della persona che ha parlato. Dove prova tensione? Che emozione sta provando?; immaginate cosa avrebbe potuto esprimere se fosse stata più consapevole dei propri bisogni.
Attenzione al ritmo. Nei momenti in cui siete liberi di ascoltare il ritmo di una conversazione (colloquio di lavoro, serata tra amici, festa, ecc.), smettete di concentrarvi sul significato delle parole e prestate più attenzione al ritmo con il quale vengono scambiate. Qual è la velocità del dialogo? Vengono effettuate pause tra i vari interventi? Le persone si interrompono a vicenda? Come fa il dialogo a “riprendere fiato”? Se state prendendo parte alla discussione, osservate con un po’ di distacco il modo in cui vi esprimete. Quali sono i vostri primi riflessi quando prendete la parola? Fate delle pause durante la conversazione? In caso contrario, cosa suscita ciò in voi e nell’altro?
La verità dell’immagine. Guardando un video o durante una trasmissione in diretta, togliete l’audio dal televisore e cercate di connettervi empaticamente con le persone che vedete: attori, politici, concorrenti di un gioco, poco importa! Se possedete l’apposita funzione, mettete ogni tanto in pausa le immagini: secondo voi, che emozione sta provando la persona sullo schermo?

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