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Liberiamo l’educazione: manifesto per crescere nella non-violenza

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La comunicazione non violenta permette di costruire relazioni e cambiare paradigmi. È la base su cui si fonda l’idea di pedagogia non direttiva di Jean-Philippe Faure. Per un nuovo sguardo al senso dell’educazione 
Accoglienza, empatia, presenza consapevole, rispetto; e ancora, il limite come sostegno alla relazione e la parola come forma di responsabilizzazione. Sono gli strumenti educativi della Comunicazione Non Violenta (CNV), ideata dal compianto Marshall Rosenberg e portata avanti oggi da un numero crescente di educatori. Con l’obiettivo di nutrire relazioni interpersonali positive nella società, ma anche di «passare a una pedagogia non direttiva in una scuola che privilegi il co-apprendimento a partire da esperienze condivise, nel rispetto dei tempi e dei ritmi di ciascun individuo». A parlare è Jean-Philippe Faure, formatore per la CNV in ambito scolastico e familiare e autore del libro “Senza punizioni né ricompense” (Terra Nuova Edizioni). «Ritengo indispensabile ripensare la scuola in questo senso, poiché oggi i bambini “imparano” a negare ciò che provano per fidarsi delle teorie degli adulti, a soffocare le emozioni attraverso atti di volontà e a nascondere le tensioni accumulate. Imparano a dedicare la maggior parte del tempo ai pensieri e solo qualche minuto al corpo, per farlo tacere quando si lamenta. Vengono inculcate migliaia di nozioni a discapito di ciò per cui si prova curiosità. Quest’opera di distruzione, separazione e repressione viene chiamata educazione, ma non lo è, è analfabetismo emotivo».
La CNV può entrare in una scuola come quella di oggi? O occorre modificare anche il contesto?
«Occorre modificare la struttura stessa dell’insegnamento. Per comunicare in modo diverso bisogna modificare il rapporto con se stessi e col mondo e la pedagogia che a quel punto emergerà sarà incentrata sulla presenza a se stessi e non più sull’assenza, sul percorso e non più sull’obiettivo, sul presente e non più su un programma. La forza vitale sprigionata sarebbe tale da sconvolgere la Terra se l’educazione potesse aiutare i giovani a incarnare la forza del loro pieno potenziale, se l’apprendimento contribuisse a creare esseri umani autonomi, sensibili al proprio ambiente e in piena sintonia con se stessi».
Come agisce sui giovani un’educazione improntata alla CNV che punti a valorizzare il loro potenziale?
«L’obiettivo è quello di far sì che i giovani siano capaci di reagire con fiducia e creatività 
alle sfide della vita; imparino a conoscersi intimamente e siano 
pronti a mettersi in discussione; siano capaci di provare ed esprimere le emozioni, sia nei confronti di se stessi che degli altri. Poi, potrebbero sviluppare le conoscenze apprese per inserirsi nelle varie culture con uno spirito di cooperazione, acquisire un reale sguardo critico, assumersi la responsabilità della vita. E diventerebbero consapevoli delle conseguenze delle loro azioni sull’ambiente, acquisirebbero i mezzi per gestire i propri problemi e sofferenze, svilupperebbero sensibilità nei confronti dei problemi e delle sofferenze altrui, potrebbero essere sempre “qui e ora”».
Calandoci nella quotidianità della pratica, proviamo a fare qualche esempio di come la CNV può modificare gli attuali paradigmi. Partiamo dall’errore. Come considerarlo?

«In una pedagogia attenta ai bisogni affettivi dell’alunno è fondamentale cambiare prospettiva nei confronti dell’errore. Va valorizzato all’interno di una cornice in cui non vengono espressi giudizi. E se valutazione c’è, perché abbia senso, va effettuata con lo spirito di avviare un processo e non di convalidarlo, quindi dovrebbe essere proposta all’inizio o durante il processo di apprendimento invece che alla sua conclusione. Quando allo studente viene proposto un test, non bisognerebbe aggiungere né punizioni né ricompense. E il confronto dovrebbe avvenire non tra gli allievi, ma tra i diversi risultati possibili. In una pedagogia non direttiva ispirata alla CNV, ci si interessa ai bisogni di ogni studente e si propongono sfide che permettano a ognuno di evolvere».

Quindi anche la critica viene vista come un’opportunità?
«L’insegnante non dovrebbe riprendere l’allievo per il risultato inatteso che ha prodotto, ma ringraziarlo per il tentativo che ha compiuto proponendogli di condividerlo per imparare insieme. L’esercizio prolungato del giudizio in quest’ottica aiuta i giovani a ricercare la critica come un’occasione, invece che sfuggirla. Ma per poter raggiungere questo obiettivo, è probabile che l’insegnante debba prima lavorare sulle fragilità che i suoi alunni avranno sviluppato dopo aver subìto le valutazioni come un’aggressione. La CNV propone una procedura per aiutarci a esprimere questa forma costruttiva di critica: comunicare la nostra autenticità; ascoltare in modo empatico; cercare l’oggetto dell’insoddisfazione; celebrare il senso di quel che è emerso».
Quanto è importante il “saper accogliere” nell’educare bambini e ragazzi?
«Ritengo che la fiducia reciproca tra insegnanti e ragazzi venga intaccata dalla frequenza con cui non si riserva ai giovani lo stesso tipo di accoglienza che si è soliti dedicare agli adulti. Spesso si ripetono atteggiamenti inconsapevoli che hanno le loro radici in una minore considerazione dei giovani a causa della loro età. Ecco perché con gli insegnanti non lavoro tanto su quel che avviene dall’inizio alla fine del loro corso, ma piuttosto dalla conclusione del corso all’inizio di quello successivo. Quello che danneggia la qualità dell’accoglienza è la rigidità dei ruoli nei quali siamo stati spinti a limitarci: ci fossilizziamo in essi perché allentare la presa ci procura insicurezza. Invece, la capacità di passare da un ruolo all’altro, in funzione delle necessità della situazione, rappresenta uno degli elementi principali di una pedagogia non direttiva».
E veniamo all’empatia, da tanti invocata ma così difficile da realizzare e raggiungere. Come aiuta in questo la CNV?
«La CNV ci permette di entrare in contatto con la nostra vulnerabilità ed esprimerla e di aprirci in maniera incondizionata al messaggio di chi ci sta vicino e riformularlo. Questo secondo aspetto si chiama empatia, che può essere definita come la qualità di quel che resta del nostro ascolto dopo esserci spogliati delle nostre abitudini e difese. Si realizza cioè quando smettiamo di credere di sapere per l’altro ciò che è meglio per lui e quindi ci asteniamo dal fornire consigli non richiesti; quando smettiamo di voler fare qualcosa nei rapporti in cui è invece sufficiente essere presenti;
 quando accettiamo di non rapportare più a noi stessi quel che riguarda solo l’altro e di non coinvolgere più l’altro in quel che riguarda solo noi stessi. Una volta effettuato questo lavoro di pulizia, possiamo entrare in sintonia con il nostro interlocutore e può innescarsi un’azione profondamente ecologica. Saremo in grado di proporre all’altro un’interpretazione incentrata su sentimenti e bisogni latenti e l’interlocutore non dovrà più convincere, difendersi o giustificarsi».
Un dono che gli adulti possono fare ai bambini e ai giovani è offrire loro il sostegno della presenza. Quale valore ha per lei questo ai fini educativi?
«La presenza è un vero e proprio dono, perché rappresenta una fonte di sicurezza per i giovani. Per loro, infatti, i punti di riferimento fondamentali sono rappresentati dalla chiarezza dei genitori e degli educatori. Le regole che mettiamo in atto e le richieste che facciamo hanno  valore innanzitutto a partire da questa trasparenza. L’autorità reale non può essere imposta, ma è conferita da un gruppo, e sarà la percezione della pace interiore di una persona che ne spingerà altre a riporre in lei la fiducia. La presenza può manifestarsi in vari modi, ma si basa innanzitutto sulla nostra autenticità nell’immediato: entrare in contatto con quel che stiamo vivendo, sia sul piano corporeo che su quello emotivo e intellettuale, ed esprimerlo con semplicità. Secondo la CNV, questa capacità di esprimere la propria vulnerabilità non è una forma di debolezza ma, al contrario, un indice della forza di un essere umano. La presenza non può verificarsi per effetto di uno sforzo di volontà o di riflessione, ma si manifesta quando molliamo la presa e ci lasciamo andare a quel che proviamo. Ritengo inoltre fondamentale assumersi la responsabilità dei nostri bisogni: restare fedeli a quel che proviamo, non lasciarci influenzare dalle reazioni altrui e allo stesso tempo rispettare i nostri bisogni. Più di qualsiasi azione, è questo equilibrio tra un’attitudine chiara e salda nei confronti di se stessi, ma aperta agli altri, che crea le condizioni che donano sicurezza ai bambini. La nostra autenticità non sarà necessariamente qualcosa di facile da sentire per il nostro interlocutore. La CNV non aspira alla gentilezza (se questa consiste nel credere che sia meglio evitare i conflitti), ma a una disposizione d’animo positiva, ovvero al rispetto di quel che è presente in noi e alla fiducia in quel che conseguirà alla sua onesta espressione».
Lei pensa che su queste basi i ragazzi possano recuperare l’entusiasmo nell’apprendere?
«La pedagogia non direttiva improntata alla CNV è anche incentrata sull’entusiasmo e questo implica un’inversione della logica del processo di apprendimento all’interno della scuola: non si parte più dagli obiettivi stabiliti dallo Stato, ma dall’interazione dei bisogni individuali, sia degli alunni che degli insegnanti. Di conseguenza, saranno sviluppati strumenti per mettere a fuoco questi bisogni nel presente, saranno individuate possibili strategie e verranno stabiliti processi di accompagnamento per ottenere il massimo dalle scelte effettuate. Poi, per suscitare nei giovani il piacere di imparare, gli insegnanti dovranno innanzitutto divertirsi. Così facendo, trasmetteranno il proprio entusiasmo per una materia e, di conseguenza, i loro studenti saranno coinvolti in modo del tutto naturale nella gioia di esplorare. Oltre all’azione contagiosa dell’educatore, anche altri fattori possono permettere ai giovani di entrare in contatto con questa avventura infinitamente appassionante che è la scoperta della vita. Innanzitutto offrire una cornice ricca, aperta e stimolante, e un gran numero di strumenti e soggetti da esplorare; poi, finché lo studente non ha scelto una direzione chiara, operare la minor pressione possibile nei confronti di un obiettivo. Le costrizioni, infatti, suscitano una resistenza proporzionale alla forza esercitata e questo affievolisce l’entusiasmo interiore. Ciò non significa che bisogna abbandonare il concetto di obiettivo. Quando uno studente è concentrato su un progetto, vengono definite insieme all’insegnante determinate finalità, le quali però possono trasformarsi. Operando con regolarità delle co-valutazioni, gli obiettivi potranno essere adattati affinché rimangano al servizio del percorso di apprendimento e non diventino dei freni».
E in conclusione Faure si sofferma su quella che lui chiama “la fiamma dell’intelligenza”.
«La fiamma dell’intelligenza, che molto spesso l’educazione riduce in cenere, è rappresentata dalla capacità di mettere tutto in discussione e di avere uno sguardo sempre nuovo sulle cose, senza considerare nulla come prestabilito. È il dono di confutare le convinzioni dell’insegnante e di chi apprende, affinché avanzino insieme su percorsi inesplorati. La fiamma dell’intelligenza è lo straordinario sguardo del bambino sul mondo, eternamente stupito. Manteniamolo vivo».
 
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L’educazione convenzionale è da sempre prigioniera del binomio punizione-ricompensa. L’autore propone di uscire da questo schema seguendo i principi della Comunicazione Non Violenta elaborati da Marshall Rosenberg.

Le motivazioni dei bambini e dei giovani, l’educazione all’affettività e la scoperta di se stessi diventano le linee guida per un nuovo patto educativo. L’insegnamento si trasforma così in un’esplorazione gioiosa e nel reale ascolto dei bisogni degli allievi e dell’insegnante.
L’apprendimento non è più un processo solo mentale, ma coinvolge corpo, emozioni e, sicuramente, il cuore. Un libro imperdibile per insegnanti, educatori e genitori.
 

Come trasmettere ai propri figli quelle regole che li aiutano a crescere senza ricorrere a ricatti e minacce? Come spiegar loro i limiti pur rispettandone desideri e bisogni?

L’autrice, educatrice montessoriana, con la sua prima bambina si è trovata davanti a questi e a molti altri dubbi, e a lottare contro se stessa per non replicare, su sua figlia, gli schemi repressivi dell’educazione tradizionale. Metodi che nell’immediato funzionano, ma che possono portare a eccessi di sottomissione o di ribellione. Ma quanto è facile cedere alla tentazione di una sculacciata, quando l’ennesimo capriccio ci fa saltare i nervi?
Con semplicità e franchezza Catherine Dumonteil-Kremer accompagna educatori e genitori lungo le diverse fasi ed esigenze dell’infanzia, con suggerimenti utili su come ascoltare appieno i bisogni dei piccoli e su come dire Stop, senza violenza.
 

Essere empatici significa saper ascoltare in modo globale e profondo. Significa essere presenti e offrire un’attenzione benevola ai bisogni dell’interlocutore. Significa mettere da parte il proprio ego affinché non abbia il sopravvento nella comunicazione e quindi nella relazione. Elementi che, tutti insieme, permettono una connessione profonda con l’altro e le sue sofferenze, evitando di identificarsi con esse.

Jean-Philippe Faure e Céline Girardet ci invitano a una vera e propria rivoluzione concettuale: praticare l’empatia nella vita di tutti i giorni per migliorare la nostra esistenza e quella di coloro che sono intorno a noi. Attraverso testimonianze, esempi pratici ed esercizi, il libro ci aiuta a comprendere meglio che cos’è l’empatia, come impiegarla nel quotidiano e come metterla al servizio di una comunicazione autentica.
Un testo rivolto a tutti perché l’ascolto consapevole che è al cuore della Comunicazione nonviolenta è un ingrediente prezioso per portare pace e felicità nella vita di tutti noi.

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