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Brutti, ma buoni

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Più piccoli o più grandi, asimmetrici, con la buccia un po’ rigata. La grande distribuzione scarta un’infinità di prodotti agricoli solo per motivi estetici e un quinto del cibo prodotto rimane nei campi. L’iniziativa di NaturaSì e Legambiente per cambiare le regole del gioco, a cominciare dall’ortofrutta bio.
Brutti, ma buoni
«Mangiare è un atto agricolo» scriveva qualche anno fa il celebre attivista americano Wendell Berry. Con le nostre scelte possiamo cambiare il modo di fare agricoltura e, molto probabilmente, anche le sorti del Pianeta. Un cambio di passo è indispensabile, perché a livello globale l’agricoltura è responsabile di circa il 25% delle emissioni di carbonio in atmosfera.
Ma al danno si aggiunge la beffa degli sprechi, uno schiaffo di umiliazione per gli oltre 800 milioni di individui che soffrono la fame nel mondo.
Secondo i dati Fao, quasi la metà della frutta e della verdura prodotta a livello globale finisce nella spazzatura e il 21% di questo spreco, nel nostro paese, avviene direttamente sui campi. Un fenomeno increscioso che costa complessivamente circa l’1% del Pil nazionale, con una stima che oscilla tra i 12 e i 16 miliardi di euro.
Per produrre il nostro cibo consumiamo energia e risorse primarie, andando a inquinare l’aria, la terra e l’acqua, e una parte consistente di questa produzione neanche arriva sugli scaffali.
Sulla frutta e la verdura esiste una sorta di blocco alle frontiere: in questo caso il respingimento avviene ad opera dei grossisti e ha a che fare semplicemente con l’estetica del prodotto finale. Secondo le normative vigenti, ogni singolo prodotto agricolo deve infatti rispondere a delle caratteristiche predefinite, che non tengono conto dei tempi e della variabilità della natura e, soprattutto, delle ripercussioni della crisi climatica sul comparto.
Come la mela di Biancaneve, i frutti devono essere lucidi e perfetti, con un calibro ben preciso. Cloni senza difetti di una catena di montaggio che poco ha a che fare con la natura e con il mondo agricolo.
Come evidenzia il recente rapporto Siamo alla frutta, dell’associazione Terra!, «un cibo bello non è sempre buono per l’ambiente e l’agricoltura. Ciò che acquistiamo sullo scaffale è un prodotto che è stato selezionato geneticamente, coltivato, raccolto, passato al vaglio delle macchine calibratrici e, infine, diventato prodotto “extra” o di “categoria I”. La “categoria II”, considerata inferiore, difficilmente trova spazio nei mercati tradizionali e viene venduta in mercati considerati più poveri, come nei paesi dell’Est Europa, o finisce alle industrie di trasformazione per farne succhi di frutta, dove però viene pagata una cifra irrisoria» si legge nel ben documentato rapporto».

È tutta colpa di Biancaneve?

Di chi è la colpa? Il rapporto Siamo alla frutta ha posto la domanda ai referenti della Grande distribuzione organizzata (Gdo), che hanno dato una risposta pressoché univoca, scaricando la responsabilità sul consumatore finale. Secondo questa logica, il consumatore non comprerebbe mai un prodotto esteticamente imperfetto, di calibro piccolo, con ammaccature da grandine, anche se ottimo dal punto di vista organolettico. «Vogliono frutti tutti uguali, come se fossero usciti non da un albero, ma da una catena di montaggio»: è la risposta dei produttori interpellati.
La mela luccicante, che la perfida strega offre a Biancaneve, non può essere rifiutata dall’ingenua ragazza. E così, la Gdo ha creato dei capitolati stringenti relativi alla pezzatura della frutta, alle forme asimmetriche e a tutti i difetti visivi che renderebbero poco commercializzabili i prodotti di madre natura. Una sorta di tolleranza zero verso gli inestetismi. La buccia deve essere praticamente perfetta e i difetti ridotti al minimo, mentre il calibro deve corrispondere a precise misure, che variano in funzione della singola categoria di prodotto. Per le arance, il calibro minimo è di 5,3 cm, per la mela 6, mentre per i frutti oblunghi, come il kiwi, si devono fare calcoli e proporzioni: il rapporto diametro minimo/diametro massimo, misurato nella sezione equatoriale all’asse del frutto, deve essere di almeno 0,7 cm.
In realtà la questione è determinata da precise normative, nella fattispecie dal regolamento europeo 543/2011, successivamente modificato con il regolamento 428/2019, elaborato in seguito alle indicazioni di un gruppo di lavoro sulle norme di qualità dei prodotti agricoli, istituito presso la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Europa (Unece).
I primi a rimetterci, come al solito, sono gli agricoltori, che già devono lottare contro i cambiamenti climatici e si vedono rifiutare i prodotti semplicemente perché non sono conformi.
Possiamo davvero addossare la colpa all’odierna Biancaneve o non è piuttosto, come ci suggeriscono i relatori del rapporto Siamo alla frutta, responsabilità del mercato, quella di aver indotto i consumatori a fare del giudizio estetico una delle principali leve per l’acquisto?

La risposta di chi ci crede

Nel 2020 NaturaSì, con la collaborazione di Legambiente, ha lanciato il progetto CosìPerNatura, mettendo a disposizione dei clienti i prodotti imperfetti esteticamente, solo un po’ più grandi o un po’ più piccoli, o semplicemente dalla forma insolita, della stessa qualità biologica.
Un’iniziativa che ha avuto successo e ha incontrato il favore dei consumatori.
Dall’azienda ci informano che la media giornaliera di vendita dei CosìPerNatura al pubblico è cresciuta in un anno di circa il 30%, con una predilezione per la frutta rispetto alla verdura. Alcuni negozi hanno raggiunto punte anche del 12% sul totale di ortofrutta venduta. E così, la maggiore azienda che commercializza il biologico in Italia è riuscita a passare da un 20% a un massimo del 4% circa di scarto sui campi dei propri fornitori: prodotti che altrimenti sarebbero stati esclusi perché non aderenti allo standard estetico, che il mercato ha imposto, e che è diventato ormai un’aspettativa indotta per chi acquista. «Sono numeri ancora piccoli, ma le rivoluzioni dei comportamenti acquisiti hanno bisogno di tempo per maturare» dichiara l’amministratore delegato di NaturaSì, Fausto Jori. «Il nostro obiettivo è quello di recuperare 2500-3000 tonnellate di frutta e verdura “imperfetta” in più all’anno. Il percorso ambizioso dello spreco zero nel raccolto è già stato intrapreso. Con un vantaggio per tutti. Quello che però conta è che il nostro possa essere un esempio per spingere verso regole che premino le attività antispreco o quantomeno che non le ostacolino. Abbiamo deciso di andare in controtendenza rispetto alle regole del mercato, che imporrebbero l’omogeneità anche a tavola, e diamo ai consumatori l’opportunità di scegliere, a prezzo ridotto, prodotti buoni, coltivati nel rispetto dell’ambiente e del lavoro degli agricoltori. Una scelta a favore dell’ambiente molto chiara che potrebbe essere ampliata se anche la politica facesse la sua parte con una riflessione sulla normativa che finora ha premiato la standardizzazione».
L’azienda, sempre assieme a Legambiente, si sta muovendo a livello politico per proporre un’esenzione specifica all’applicazione delle norme di commercializzazione nel settore dei prodotti ortofrutticoli biologici (ex art. 4 reg. UE – 543/2011). La richiesta è stata recepita da alcuni parlamentari ed è arrivata al vaglio del sottosegretario all’agricoltura Francesco Battistoni.
I presupposti sono buoni per ottenere un risultato che potrebbe davvero cambiare le regole del gioco.
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Settembre 2021  

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