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Chi ha paura delle comunità

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Le comunità sono pericolose. Fanno paura, a critici, intellettuali e soprattutto agli amministratori. L’articolo “Chi ha paura delle comunità” tratto da Terra Nuova Novembre 2012.
L’idea che di un territorio, pur piccolo, possa essere governato secondo i propri statuti e convenzioni è in antitesi con le regole del potere, anche di quello cosiddetto democratico. Il meccanismo è chiaro: dobbiamo restare dipendenti dalle autorità, come consumatori schiavi, o al massimo come utenti di una cosa pubblica, che è di tutti e di nessuno. Eppure l’attenzione per i beni comuni, ultimamente, solleva delle questioni di diritto fondamentale: di chi sono i ruscelli, i boschi, i campi, l’aria che respiriamo?
Sono proprietà: il pensiero moderno dice questo.
Devono diventare soggetti alla proprietà privata, tuonano i fanatici del neoliberismo, che boccono dopo boccone si divorano fette di territorio. Devono essere di proprietà pubblica, e cioè di tutti o di nessuno, dicono le sinistre, con lo stato, il comune, la provincia, i parchi o chicchessia che li amministrano secondo le proprie regole… a tutela di tutti ovviamente (!).
Sembra che non si possa uscire da questo binomio proprietà pubblica – proprietà privata, ma basterebbe conoscere meglio la nostra storia. In fondo la proprietà è un’invenzione moderna, che comincia con le enclosures inglesi, il capitalismo di rapina. E che nella sua sostanza viene confermata e rivendicata da tutte le spinte democratiche dalla rivoluzione francese in poi. La differenza qual è?
E di tipo ideologico. Perché la proprietà pubblica, nelle migliori intenzioni, dovrebbe rappresentare un tipo di proprietà o usufrutto a beneficio della collettività. Ma è davvero così? Una volta c’erano davvero i beni comuni, a beneficio di tutti, quelle che gli inglesi chiamano commons. Terreni indivisi, dove ogni membro della comunità poteva approvvigionarsi per il taglio della legna, il cibo o il consumo di acqua. O dove le bestie potevano accedere liberamente al pascolo. Erano tempi diversi: le attività economiche non erano intensive, non dovevano generare quel cosiddetto plusvalore dell’accumulo di denaro, servivano per l’auto-sostentamento e l’autosufficienza.
Poi, con l’idea di proprietà, quella privata ma anche quella pubblica di uno stato padrone, le comunità si sono dissolte. Oggi sui nostri blog firmiamo appelli in difesa delle comunità indigene, che si ribellano alle multinazionali, e rivendicano i diritti ancestrali contro la distruzione delle foreste, o la costruzione di dighe. Ma perché non difendiamo anche le nostre comunità?
Oggi che dobbiamo prepararci alla fine del petrolio e al capitombolo dell’intero sistema economico e produttivo, queste istanze entrano di nuovo in scena. E le comunità, disgregate e ridotte a un formicaio di consumatori individuali, diventano fondamentali. Eppure c’è chi le guarda con sospetto. In particolare fa paura il comunitarismo, tendenzialmente «di destra» dicono inorriditi gli intellettuali. Fa paura il fallimento dell’internazionalismo democratico. Fanno paura i particolarismi. E così anche Serge Latouche, che ho visto al Festival della Filosofia di Modena, spera in un eco-socialismo mondiale. Mentre nella stessa giornata Stefano Rodotà diceva che il comunitarismo è «incompatibile con i diritti fondamentali della persona». Uh gli indigeni, con l’anello al naso!
In Italia esiste una legge del 1927 che preserva i diritti delle comunità sul territorio e le autorizza a governare i propri beni attraverso un’amministrazione separata, che le Regioni hanno il dovere di concedere, in presenza di dati storici e giuridici certi. Sono le terre collettive, né pubbliche, né private lo spauracchio di politici e imprenditori!
Pensate invece a quante funzioni le comunità potrebbero assolvere da sole, sgravando le amministrazioni da zavorre di bilancio! Quanto beneficio per le popolazioni locali, che si vedrebbero coinvolte nella gestione dei beni comuni! Nel comune in cui vivo si appaltano lavori a società lontane per pulire i fossi, tagliare alberi, o addirittura per avvitare le lampadine sui lampioni. E un dipendente comunale viene giù dalla valle per svuotare contro voglia l’unico cestino sulla piazza del paese.
Nessuna comunità potrà mai diventare completamente indipendente e bisogna volare alto. Ma diciamolo chiaramente: senza comunità ci riduciamo in uno stato di schiavitù collettiva, da cui nessun socialismo potrà mai liberarci. 
Articolo tratto dalla rubrica Spunti di Vista, pubblicata sul mensile Terra Nuova Novembre 2012, anche come eBook:

 

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