L’abbiamo chiesto a Sergio Cabras, antropologo e agricoltore, con il quale abbiamo parlato di avanguardie e cambiamento.
Cresciuto sui Castelli Romani, Sergio Cabras, autore di L’alternativa neocontadina (Youcanprint edizioni), si è trasferito in Umbria nel 1982 all’età di diciannove anni, trascorrendo alcuni anni nelle case di Monte Peglia, nei dintorni di Orvieto, un avamposto politico che ha dato vita all’occupazione di casolari e terreni. Attualmente si prende cura di trecento ulivi, duemila metri di vigna, un bosco e due arnie di api.
Sergio, chi è e cosa fa il neo-contadino che descrivi nel tuo libro?
In una vita neo-contadina, nel senso che sto cercando di descrivere, non c’è bisogno necessariamente di essere agricoltori a tempo pieno: basta anche un bell’orto, alcuni alberi da frutta, poche galline, un certo livello di autoproduzione di beni di base che ci consenta di non dipendere completamente da uno stipendio o comunque dal sistema economico capitalista-consumista. Basta che il rapporto fisico/lavorativo con la Natura abbia un ruolo anche parziale, purché economicamente significativo nella nostra esistenza.
Rispetto alla crisi, in che modo questa nuova figura può tracciare un’alternativa?
Quella che chiamiamo crisi è l’incapacità del sistema di riassorbire occupazione. Il sistema non può offrire stipendi a tutti. La disoccupazione è cronica, insieme alla bassa qualità dell’occupazione.
La maggioranza delle persone, la massa, trova che l’alternativa è tra disoccupazione e occupazione precaria. Il vero problema è la dipendenza totale dallo stipendio e dal denaro. La scelta di tornare alla campagna attenua questa dipendenza.
Pensi che sia una soluzione per tutti?
La vita contadina è alla portata delle persone comuni. Non per nulla è stata, e per moltissimi nel mondo è tuttora, la forma di vita umana più diffusa a tutte le latitudini e in tutto il corso della storia. Non bisogna essere belli e iperlaureati. Basta ben poca terra per svincolarsi dalla dipendenza assoluta dello stipendio: due ettari di terra per famiglia sono sufficienti. I contadini hanno sempre integrato con altre attività.
Parlo, non a caso, di contadino tradizionale, e non di quello che oggi viene chiamato «imprenditore agricolo». Si può fare autoproduzione, con la vendita diretta dei prodotti agricoli.
Come attività integrative ci possono essere occupazioni di alto livello, o attività artigianali comuni.
Non c’è il rischio di cadere in una visione romantica del ritorno alla terra?
La scelta deve essere consapevole, altrimenti si cade nell’illusione. Purtroppo anche i movimenti alternativi sono lontani dalla realtà delle cose: ai concetti e alle idee viene attribuita troppa importanza rispetto alla realtà vivente. La vita contadina è senz’altro dura, ma permette di attuare un vero cambiamento. Per me l’approdo alla meditazione è stato fondamentale in questo percorso verso la concretezza.
Quando stai seduto e devi rimanere fermo per lungo tempo e ti vorresti muovere, le gambe fanno male, hai dei pensieri confusi, sei lontano da una visione romantica. Ma è proprio attraverso la ripetizione della pratica, che qualcosa piano piano cambia.
Pensi davvero che le nostre scelte individuali possano incidere sulle sorti del mondo?
Non serve creare un progetto politico per cambiare la storia. Le rivoluzioni sono silenziose. Ciò che sta cambiando molto il mondo oggi, per esempio, sono le rimesse di denaro che gli immigrati spediscono nei loro paesi di origine; queste, dal punto di vista economico e culturale, hanno un effetto incalcolabilmente più grande dei progetti di cooperazione internazionale. Al di là delle opinioni, o dei grandi progetti, sono le azioni individuali che fanno la storia.
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Brano tratto dall’articolo
“Contadini d’avanguardia”