D come Decrescita, D come donna
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Mi ha colpito molto il fatto che il linguaggio della decrescita sia quello del femminismo. Parole come condivisione, collaborazione, spazio al lavoro di sussistenza e di riproduzione, espressioni come conservare la vita e allontanarsi dal mercato: sono tutti termini e contenuti delle rivendicazioni femminili. Nonostante ciò, un focus sulle donne non è ancora stato fatto nell’ambito della decrescita. Eppure le donne sono anche quelle che hanno pagato e stanno pagando di più i mali della crescita, anche con la vita.
Nei paesi del Sud del mondo sappiamo che la produzione agricola è affidata alle donne in percentuali del 45-80%. Nell’Africa sub-sahariana, ad esempio, le donne sviluppano l’80% delle risorse alimentari della famiglia, che poi vuol dire che coltivano, portano acqua, trasportano legna. Queste donne sono state costrette negli ultimi decenni ad abbandonare le loro terre a causa di cambi di colture per l’economia di piantagione, costruzione di dighe, sfruttamento intensivo del legname.
Qualcuno ricorderà la protesta delle donne indiane che sradicarono le piantine di eucalipto, considerate una coltura che impoverisce il terreno, per sostituirle con mango e tamarindo, oppure la lotta che fecero le donne africane per proteggere le mangrovie, difendendo le foreste dal disboscamento dovuto ai pozzi petroliferi. Tutte queste donne hanno perduto non solo le loro terre e la loro vita quotidiana, ma anche la loro identità, e ciò che è ancora peggio il loro valore. Per ogni famiglia la nascita o la possibile nascita di una femmina non è auspicabile, è inutile o addirittura nociva, visto che poi si dovrà «piazzare» la femmina in un’altra famiglia sostenendo degli oneri. Non a caso si è calcolato che mancano 60 milioni di donne all’appello: tra aborti selettivi, uccisioni alla nascita e uxoricidi.
Sì, è vero. Fin dall’inizio dell’industrializzazione le donne sono state escluse dal mercato del lavoro o marginalizzate e pertanto i movimenti femminili hanno rivendicato, accanto al diritto di voto, uguale accesso al lavoro e all’istruzione. Nel corso del tempo l’enfasi sull’uguaglianza ha contribuito alla svalorizzazione da parte delle stesse femministe del lavoro domestico e di cura, tanto da far apparire come preferibile alla maternità e crescita dei figli anche i lavori più umili come quello di bigliettaia sul tram. Lo affermò negli anni ’20 la femminista britannica Eleanor Rathbone, in polemica con le «femministe dell’uguaglianza».
Credo che più che il senso di solitudine, il problema sia la percezione del lavoro di cura in sé. Essendo stato per secoli totalmente ignorato, mai considerato come un vero lavoro e del tutto svalorizzato, ha creato nelle stesse donne un senso di non esistenza. Se sentissimo che ritirarsi nel privato per fare un lavoro di cura, come crescere un figlio, è un lavoro pienamente esaltato e supportato da tutti, sono convinta che le donne, ma anche gli uomini, non patirebbero questo senso di solitudine e di inadeguatezza sociale, ma proverebbero al contrario una grande fierezza.
Cominciare a dare il giusto valore al bene comune del lavoro delle donne. Nel libro, cito l’esempio dell’iceberg per far capire che la società che vediamo è come il mercato capitalistico vuole che la vediamo; non è che una piccola parte di un tutto che lo sostiene. Sotto la punta dell’iceberg vi è un’economia invisibile, che include il lavoro di riproduzione e conservazione della vita e che rende possibile ogni altra attività. La decrescita può far emergere questa economia e le sue protagoniste.
Le prime società umane sono state matrifocali, il patriarcato dunque non è esistito da sempre, ma è l’esito di una appropriazione violenta del lavoro delle donne, un modo di appropriazione che divennne un modello per tutte le relazioni di sfruttamento. Anche il collaboratore di Marx, Friedrich Engels, ha affermato che col passaggio dal matriarcato al patriarcato la società umana ha compiuto un regresso: allo sviluppo delle forze produttive aveva corrisposto infatti un aumento della conflittualità tra individui e comunità. Altri autori sostennero che alle donne si doveva lo sviluppo del linguaggio, delle credenze religiose e dell’organizzazione sociale, nonché, spinte dalla volontà di proteggere la prole, la prima vera relazione produttiva con la natura. Se ci pensiamo bene, è una cosa del tutto naturale.
La ricerca storica ci dice che quando i raccolti di cereali e di radici prodotti dalle donne primitive iniziarono ad avere un valore commerciale, della loro produzione si impadronirono gli uomini e cominciarono i rapporti basati sul dominio e sulla competizione. Quando le donne persero l’autonomia economica, cominciò il loro declino. Tennero ancora il rapporto naturale e privilegiato con la natura, ma quando in secoli a noi vicini la natura venne proclamata materia inerte, da dominare e sottomettere, fu lanciata in Europa una campagna di terrore contro le donne, che ne distrusse le pratiche e i saperi.
Il movimento per la decrescita dovrebbe avere coscienza del fatto che alcuni dei suoi valori portanti sono quelli per cui ha combattuto il femminismo dagli anni ’60 in poi e che dalla ricchezza della sua riflessione c’è molto da attingere. Per il resto starà agli uomini e alle donne insieme, e paritariamente, organizzarsi nel migliore dei modi. Il pensiero che sostiene la decrescita deve essere pienamente inclusivo: finché ci sarà dominio di una parte sull’altra, esattamente lo stesso atteggiamento che il genere umano ha nei confronti degli animali, non ci potrà essere un vero rinnovamento.
Il potere patriarcale è entrato nell’inconscio a tal punto che neppure per le donne è facile vederlo; quel potere ha anche la forza di renderti invisibile e di rendersi invisibile e subdolo. Ma a Venezia, lo scorso settembre, nella terza conferenza internazionale sulla decrescita, ho incontrato studiose come Alicia Puleo, Veronika Bennohodlt-Thomsen, Mari Mellor e l’economista femminista Antonella Picchio; c’è stato anche un workshop sull’economia sessuale della crescita. Questo è certamente il segno di un cambiamento.
Certamente, e vorrei aggiungere che essendo una storica, ogni cosa riesco a osservarla se la vedo nella sua profondità cronologica. Negli studi della nostra civiltà cosa si vede? Che tutto il pensiero occidentale pone al centro l’uomo, un mondo maschile in opposizione al mondo della natura e delle donne, un mondo di individui separati e in competizione, in cui ad essere centrale è la morte. È una cultura di morte. Per contro, che cosa si dice della nascita che rappresenta l’accoglienza dell’altro e la relazione? Poco o nulla. Eppure Adriana Caravero afferma nel suo Il femminile negato: «si muore soli, ma non si può affermare che si nasce soli». Sostenere la centralità della nascita nella nostra cultura comporterebbe la messa in discussione di una visione prettamente maschile dell’esistenza e della società, che fino a questo momento ha enfatizzato l’uomo che costruisce cose eterne, monumenti e città, mentre la donna produce fragili creature mortali. Finché ci sarà cultura del dominio e della sopraffazione, la nascita non può essere messa a tema, perché ci si dovrebbe collegare al concetto di vulnerabilità, mentre quello che si ama celebrare dell’uomo è il mito dell’indipendenza e della forza.
Consiglierei: cercate di leggere i libri di economia con gli occhi di genere, con gli occhi delle donne e di chi non ha voce. Vi accorgerete che sono libri fatti per pochi e coinvolgono solo una piccola parte dell’umanità e degli esseri viventi. Un’illusione di completezza e di esaustività non aderente alla realtà. Sforziamoci d’ora in poi di guardare le cose da sotto, dalla parte più bassa, quella delle persone nel Sud del mondo, ma anche degli animali…
È il titolo di una rivista telematica, Deportate, Esuli, Profughe 1 ; una rivista che mette a fuoco, con dati alla mano e studiosi che si fanno portavoce, le condizioni e i numeri delle donne costrette a lasciare le proprie terre a causa di guerre e decisioni politiche ed economiche contrarie ai popoli.
Immaginare la società della decrescita
è il titolo di un libro del quale Bruna Bianchi è coautrice con Adriano Fragano, Paolo Cacciari e Paolo Scroccaro pubblicato da Terra Nuova.