Dopo l’allarme lanciato da centinaia di scienziati in tutto il mondo, le proteste e le manifestazioni, le conferenze, gli accordi e le promesse (mancate), sempre più cittadini decidono di passare ai fatti. O, per meglio dire, agli atti. Quelli che verranno depositati proprio in questi giorni presso il Tribunale civile di Roma.
Si chiama Giudizio Universale la campagna indetta da un folto gruppo di organizzazioni, associazioni, comitati e singoli cittadini, assistiti da un team legale composto da avvocati e docenti universitari, per chiedere al Tribunale di imporre allo Stato italiano di attuare misure più stringenti per rispondere ai cambiamenti climatici e invertire il tragico processo in corso.
«Abbiamo appena undici anni per bloccare tutte le politiche che generano emissioni e modificano il clima» si legge sul sito dell’iniziativa
www.giudiziouniversale.eu. Dopodiché sarà troppo tardi. Ne abbiamo parlato con il professor Michele Carducci, ordinario di diritto costituzionale comparato e diritto climatico dell’Università del Salento e componente della piattaforma Onu
Harmony with Nature, coordinatore del
Cedeuam di UniSalento (Centro di ricerca euroamericano sulle politiche costituzionali), human rights defender, nonché membro del team legale della causa
Giudizio Universale.
Il diritto umano al clima sicuro
«Di fronte a un diritto climatico internazionale fondato sulla scienza, i cittadini possono rivendicare non solo il diritto alla tutela della propria vita e della propria salute, ma anche diritti più specifici» spiega Carducci «come quello a essere informati sulle basi scientifiche che orientano le decisioni di Stati e imprese nonché il diritto umano al “clima sicuro”, desumibile da numerosi strumenti internazionali, in tema di diritto alla sicurezza umana». Stiamo parlando del diritto di pretendere che le azioni di Stati o imprese garantiscano uno spazio operativo sicuro, di medio e lungo periodo, di concorso al controllo e alla stabilità dei cambiamenti climatici. E dove sussiste un diritto connesso all’ambiente e al clima, esiste sempre la possibilità di accedere al giudice: lo impongono la Convenzione di Aarhus, la Convenzione europea sui diritti umani e la Carta di Nizza dell’Unione europea.
«Quelle climatiche, tuttavia, sono cause non riconducibili all’ordinario contenzioso per danno ambientale» specifica Carducci. «La differenza si spiega per diverse ragioni. In primo luogo, clima e ambiente non identificano, dal punto di vista giuridico, il medesimo oggetto di disciplina e tutela: se l’ambiente coincide con un determinato contesto fisico-territoriale, delimitato e circoscritto, il clima consiste in un “iper-oggetto” giuridico, ossia in una situazione interspaziale e intertemporale di mutamento, che interessa l’intera biosfera e non solo un determinato contesto». Da qui deriva una seconda differenza: «Mentre il diritto ambientale nasce e si sviluppa in una proiezione antropocentrica ed economica, il diritto climatico impone un approccio ecosistemico planetario fondato sulle scienze della sostenibilità: il cosiddetto “approccio ecosistemico” o, come viene chiamato dall’Onu, mother earth approach».
Il terzo profilo riguarda invece il ruolo di queste scienze rispetto al diritto e alla politica. «Le cause climatiche non si fondano su questioni scientifiche controverse, ma sul loro esatto contrario, ovvero sulla condivisione, a livello internazionale, di acquisizioni scientifiche, in tema di origini e rimedi dei cambiamenti climatici, che Stati e imprese hanno accettato, impegnandosi ad adottare una serie di iniziative». Si pensi, per esempio, all’Accordo di Parigi e ai Report dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), ai 17 SDGs (Obiettivi di sviluppo sostenibile) di Agenda 2030, alle regole Ocse sulla responsabilità climatica, per le quali Stati e privati possono essere chiamati a dar conto davanti a un giudice. «Il dato è significativo, perché attesta che il cosiddetto “negazionismo climatico” non può essere utilizzato come argomentazione giuridica davanti ai tribunali» aggiunge Carducci. Ecco allora che, se citati davanti a un giudice, Stati o imprese devono dimostrare di aver agito secondo «buona fede», come richiedono la Convenzione di Vienna sulla interpretazione dei trattati internazionali e i principi generali internazionali del diritto privato, ma con la specificazione che tale buona fede è inevitabilmente «orientata dalla scienza», ossia deve rispettare le acquisizioni scientifiche condivise. Di conseguenza, né la discrezionalità politica né l’iniziativa privata sono illimitate o insindacabili, giacché anch’esse risulteranno vincolate all’onere della prova scientifica circa l’efficacia climatica delle decisioni prese.
Centinaia di contenziosi al mondo
A fare da apripista a questo genere di contenziosi sono gli Stati Uniti, utilizzando il meccanismo di responsabilità del «toxic tort», nato per reprimere gli illeciti di pericolo ed evolutosi per affermare la colpa da omissione (di informazioni e di misure di tutela) da parte di imprese e agenzie pubbliche nell’ambito dell’esercizio di attività pericolose per la salute e l’aria (inquinamento, agenti chimici, contaminazioni ecc.).
Oggi, le cause climatiche in atto in tutto il mondo sono diverse centinaia e continuano ad aumentare. «Si tratta di cause di responsabilità extracontrattuale omissiva o commissiva, per insufficiente o inefficace contrasto ai cambiamenti climatici» puntualizza Carducci. «Dal punto di vista dei destinatari, esse si possono raggruppare in tre categorie: cause contro lo Stato; cause contro imprese private di estrazione o produzione fossile; cause contro specifici progetti autorizzati e formalmente valutati negli impatti, ma climalteranti rispetto alle acquisizioni scientifiche internazionali».
Per l’Europa, il punto di riferimento resta il caso Urgenda in Olanda, non ancora definitivamente concluso, ma con lo Stato condannato già in due gradi di giudizio. «Gli esiti di queste cause dipendono principalmente da due fattori: la natura dei ricorrenti rispetto alle regole dei singoli Stati; il buon uso delle evidenze scientifiche nel processo».
Il caso Urgenda
Urgenda Foundation è l’associazione ambientalista olandese rappresentativa di oltre 900 cittadini, che ha intentato una disputa legale contro lo Stato, ritenuto responsabile di non impegnarsi efficacemente nella riduzione delle emissioni dei gas-serra. In giudizio, sia il tribunale distrettuale nel 2015 che la Corte d’Appello dell’Aia nel 2018 hanno dato ragione ai cittadini, condannando lo Stato a riformulare le percentuali di riduzione delle emissioni di CO2. «Per la prima volta i cittadini attivi hanno portato il loro governo in tribunale, lamentando atti di ingiustizia climatica e omissioni. Grazie ai cittadini olandesi, qualsiasi altro cittadino europeo ora potrà argomentare, in nome del principio di non discriminazione tra persone dell’Unione europea, che anche il proprio Stato risponda su quanto fatto o non fatto nella lotta ai cambiamenti climatici» conclude Carducci.
La situazione italiana
Non più di dodici anni di tempo per invertire la rotta. È questa l’impietosa scadenza stabilita dagli scienziati dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, con il consenso degli Stati sottoscrittori dell’Accordo di Parigi: un tempo risicatissimo, entro il quale è necessario attuare risolutive misure per contrastare il riscaldamento globale.
Tuttavia, mentre migliaia di giovani, mobilitati da mesi nelle piazze e nelle scuole, reclamano l’urgenza di atti politici coraggiosi di abbandono del fossile, diversi governi tentennano. Italia in primis, come dimostra il voto in Senato del 5 giugno 2019, quando la maggioranza ha deliberato di disconoscere la dichiarazione di emergenza climatica.
«Quello che ha deciso la maggioranza è grave, per due ragioni: da un lato perché negare l’emergenza climatica significa rinnegare quanto concordato a livello internazionale, ossia di attribuire centralità al dibattito scientifico in supporto alla politica, legittimando così la mediocrità del pensare rispetto alla fatica del conoscere; dall’altro, perché solo lo sforzo della conoscenza rafforza la democrazia contro la cattura degli interessi esclusivamente economici» afferma Carducci.
Giudizio Universale
Con la causa Giudizio Universale, anche in Italia si inaugura una strategia di difesa cittadina per la giustizia climatica. «Associazioni e movimenti ambientalisti, cittadini e genitori in rappresentanza dei figli, assistiti da un team legale composto dall’avvocato Luca Saltalamacchia, esperto di tutela dei diritti umani e ambientali, l’avvocato Raffaele Cesari, esperto di diritto civile dell’ambiente, insieme al sottoscritto e al professor Enzo Di Salvatore, dell’Università di Teramo, esperto di diritto dell’energia, chiamano lo Stato a rispondere dei suoi inadempimenti climatici» spiega Carducci. «Durante l’estate abbiamo girato l’Italia per informare, documentare, discutere le questioni climatiche e gli strumenti giuridici a disposizione, accogliendo centinaia di partecipanti e con l’adesione di decine di associazioni e comitati» continua Carducci. «Instaurato il giudizio, lo Stato dovrà rispondere in forza dell’art. 2043 del Codice Civile e secondo le interpretazioni della Corte Costituzionale, dimostrando con evidenze scientifiche la bontà delle sue decisioni. Se non lo farà, sarà condannato a fornire le informazioni scientifiche negate ai cittadini e ad agire, da quel momento in poi, nei termini che saranno definiti dal giudice. In caso contrario, si procederà con le impugnazioni e davanti ai giudizi sovranazionali».
Insomma, lì dove la politica non arriva, ci pensano i cittadini. La consapevolezza cittadina di agire, del resto, è un’arma legittimata dalla Dichiarazione per la difesa dei diritti umani, adottata dall’Onu nel 1999. «Ed è una consapevolezza fondata sul dovere costituzionale di solidarietà» chiarisce Carducci «dato che gli sconvolgimenti ambientali colpiscono tutti, ma in modo diverso, alimentando quello che l’Onu ha definito “apartheid climatico”, dove proprio i popoli con minore impronta ecologica e minori responsabilità climatiche pagheranno le conseguenze più gravi, alimentando quell’ulteriore scambio ecologico diseguale tra Nord e Sud del mondo ».
«La modernità, del resto, si fonda proprio su questa diseguaglianza e le questioni climatiche non sono che la cartina al tornasole di questa ingiustizia costruita sulla negazione della biodiversità naturale, sociale e culturale della vita sulla terra» conclude Carducci. «Non esiste un tribunale per giudicare questo, ma esiste la responsabilità di ciascuno di noi di gridare all’ingiustizia, anche davanti a un qualsiasi tribunale».
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