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Discorso alle mie piante

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Se avessimo meno facoltà di parola non andrebbe molto meglio? La rubrica di Arianna Porcelli Safonov.
Discorso alle mie piante
Dicono che parlare alle piante faccia bene alla loro salute. Dev’essere che funzionano in modo opposto al nostro.
Se non avessimo la facoltà di parola o ne avessimo una quota giornaliera parecchio limitata, le cose andrebbero di gran lunga meglio, non credete? Meno occasioni per ferirci come orchi, meno idee del cazzo da proporre nascondendole dietro alla scusa «Sto pensando ad alta voce», maggior mistero e dunque maggior fascino, più cura per l’essenziale, più cura in generale.
Sogno un risparmio di colloqui, nell’era di maggior abuso di messaggi vocali, e so che siamo in tanti a sognarlo.
Invece, le piante pare godano ad ascoltarci e ho individuato due motivi per cui potrebbero essere in grado di farlo: 1) Non capiscono ciò che diciamo, 2) Fanno finta di non poterci rispondere per scoprire fino a che punto saremo in grado di spingerci, della serie «Facciamoci belle, lucenti e silenziose, in modo che questi miserabili continuino a parlarci e noi ci si possa sentire migliori».
Tuttavia, io alle mie piante non consento di umiliarmi così perché nonostante questa sia l’epoca in cui si cerca come non mai di salvaguardare la loro specie e la biodiversità, questi sterpi devono ricordarsi che tale protezione è spesso solo un becero brand, un’apparenza patinata per farci consumare di più, imballando quel di più dentro a bellissimi scatoloni biodegradabili.
Le mie piante devono fare poco le splendide e tenere sempre davanti agli occhi il fatto che siamo ancora noi la specie più potente e privilegiata e loro, se si comportano male, possono diventare in pochi minuti materiale per quaderni o carta da sedere.
Le mie piante devono saperlo, per poterlo riferire alle altre, in modo che tutte stiano al loro posto e che il mondo non diventi come la selva della Bella Addormentata nel bosco.
Sia chiaro, voglio bene alle mie piante.
Sono tante, rigogliose, si appendono ai miei mobili, sono turgide e concimate, insomma, ci tengo molto e voglio che, proprio per questo, sappiano la verità.
Desidero esser schietta con le mie piante perché sono le mie conviventi, le mie compagne di vita. Ma soprattutto, voglio far loro discorsi utili, schietti, edificanti affinché non si dica la stessa cosa che si usa dire sui poveretti che parlano coi muri convinti che questi siano oggetti animati.
Non mi interessa far retorica spicciola anche con le piante, per quello ho già gli aperitivi e certe amicizie superficiali.
Le mie piante devono rendersi utili e se capiterà che verrete ospitati a casa mia, capirete che è davvero così, che il soliloquio è finalmente utile: le mie piante sanno dove si trova la biancheria pulita, aprono i cassetti coi germogli, sanno come accendere il gas con le radici, almeno fino a quando ne avremo, di gas e di radici.
Le mie piante sanno come chiudere le imposte se fuori c’è vento e sanno fare economia dell’acqua che viene data loro ogni mese, quando mi ricordo di dargliene: i miei vegetali devono essere autonomi, indipendenti. «Ragazze», dico loro, dando per scontato che siano femmine perché per loro certe battaglie non sono così importanti, hanno ancora da fare con la lotta per la sopravvivenza della specie, «Ra-ga-zze! Dovete imparare a cavarvela da sole! Vi andrà senz’altro meglio di come andrebbe se mi occupassi io di voi perché non sono mai in casa, spero ve ne siate accorte».
E poi io le relazioni so solo iniziarle, non sono mai stata brava a coltivarle.
E poi non voglio altri mantenuti in casa.
Ho già tre gatti e il governo.
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Articolo tratto dalla rubrica Tanto per cominciare

Leggi la rubrica sul mensile Terra Nuova Giugno 2022
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