L’esperienza più vicina al sogno che si possa fare in uno stato di veglia. Potremmo riassumere così il teatro dei sensi del regista colombiano Enrique Vargas. Ma sarebbe solo la cornice del quadro. Un quadro dentro al quale lo spettatore viene letteralmente accompagnato per mano, come Mary Poppins dallo spazzacamino Bert.
La scena non è più un luogo inviolabile da osservare dall’esterno, ma un luogo da visitare camminando e interagendo con i suoi “abitanti”, un mondo messo a punto per noi, curato nei minimi dettagli, fatto di scenografie fiabesche, suoni, odori e sapori, un mondo che coinvolge tutti i nostri sensi, nel quale siamo guidati dolcemente, da soli o a piccoli gruppi, dagli attori.
Ci si può ritrovare a bere un calice di vino servito da Dioniso dopo aver pestato l’uva a piedi nudi, a seguire una creatura che danza davanti a noi lungo un percorso buio, a impastare una forma di pane. Ci può venir chiesto di rispondere a un indovinello, per finire mangiando frutta da un insolito banchetto.
Abbiamo incontrato Vargas a Pistoia, presso Il Funaro, prestigioso centro culturale italiano dedicato al teatro e alla formazione. Il suo sguardo è profondo e tranquillo come quello degli artigiani che amano il loro mestiere, ma non nasconde un guizzo birichino, che ci ispira la prima domanda.
Enrique, ci puoi raccontare qual è stato il seme da cui è nato il tuo modo molto particolare di fare teatro. È legato in qualche modo alla tua infanzia?
Quello che so, quello che faccio, è stato determinato dai giochi che facevo quand’ero bambino. Sono nato in campagna, in un’azienda agricola di piante da caffè. Io e mio fratello giocavamo a nascondino in mezzo a queste piante che sono un po’ come degli ombrelli sotto cui puoi entrare spostandone le foglie. Ben presto mi sono reso conto di avere la capacità di vincere, seguendo percorsi inconsueti in quel labirinto naturale. Nel tempo ho sviluppato questa tecnica alla perfezione e così, anni dopo, quando iniziai a frequentare la mia prima scuola di teatro, dissi ai miei maestri che era proprio questo quello che volevo fare.
Quindi il tuo desiderio era quello di portare nel tuo lavoro la dimensione del gioco d’infanzia?
Sì, perché per me le cose importanti erano due. La prima: il gioco di perdersi. Sono convinto che nella vita l’unico modo per trovare qualcosa è perdersi. Questo vale non solo per il teatro ma anche per la scienza, per la ricerca o per l’amore: se non ti perdi, non incontrerai mai il vero amore. Prima devi perdere tutto. E se non rischi questa perdita, non puoi trovare niente. La seconda cosa importante era la libertà del gioco infantile. Il teatro che faccio è ispirato alla libertà tipica del gioco, un aspetto secondo me fondamentale per la vita di tutti noi.
E i tuoi maestri come hanno risposto alla tua richiesta di portare tutto questo nel teatro?
Mi dicevano: “Sii serio”. Per loro questo non era teatro. Al più poteva essere un’idea per un’installazione artistica. Infatti mi consigliarono di frequentare una scuola d’arte. Ma a quei tempi quello che stavo creando non veniva preso in considerazione neanche in quest’ambito. Mi trovavo in un territorio di nessuno, molto pericoloso! Così, a volte portavo il mio lavoro ai festival di teatro, altre ai musei. Ho lavorato poi molto tempo facendo ricerca con le comunità indigene dell’Amazzonia, nelle Ande. Il teatro dei sensi è quindi nato in mezzo alla natura, con i bambini e i contadini, il miglior pubblico che ci sia, perché sono molto aperti. In città siamo più corrotti, più furbi, più complicati.
Oltre alla dimensione del gioco, nei tuoi spettacoli è possibile riconoscere anche quella del sogno. Predominano le atmosfere buie, le luci soffuse. Elementi che fanno quasi venire in mente un grembo dal quale puoi entrare in comunicazione con la realtà.
Sì, perché credo che la vera realtà per noi esseri umani, quella dove mostriamo realmente chi siamo, è proprio quella del sogno. Gli attori interagiscono con il pubblico, tanto da diventare per così dire “spettatori del pubblico”.
Che reazioni suscita questa interazione? Hai notato delle differenze particolari da un paese all’altro?
Per certi versi no, non quando si entra nella dimensione onirica del teatro. Lavoriamo spesso in Danimarca, Germania e Inghilterra. I tedeschi e gli inglesi sono apparentemente molto distanti, freddi, ma in questo contesto rivelano sempre una grande tenerezza. La verità è che abbiamo tutti “fame di pelle”, perché è nella pelle che sta la nostra anima. Tre settimane fa eravamo in Giappone e all’inizio dello spettacolo pensavo: “Sono così cerimoniosi, così formali, dicono sì a tutto, sarà un disastro”. Ma non è andata in questo modo, perché quando entriamo nella dimensione del sogno diventiamo d’un tratto tutti uguali. Questo non significa che non ci siano delle differenze.
Con gli italiani, ad esempio, mi sento particolarmente in sintonia. Mi piace lo spirito latino: da una parte il senso dell’ironia, dall’altra la facilità a entrare nella dimensione del tragico. A volte mi sono trovato anche in situazioni un po’ particolari. A Napoli abbiamo portato uno spettacolo nel quartiere Ponticelli, che è controllato dalla camorra. Per diversi spettatori, il fatto di entrare senza un coltello o una pistola era un problema: si sentivano nudi.
Abbiamo vissuto lo stesso problema con i militari, o con i poliziotti. Chi è abituato ad avere un’arma non è un buon spettatore!
In effetti nei tuoi spettacoli ci si rende per forza di cose un po’ vulnerabili, anche semplicemente per il fatto di essere guidati per mano, o accarezzati. Questo può generare nello spettatore delle emozioni forti. Basta davvero così poco?
Lavoriamo molto su come toccare, perché quando tocchi, vieni anche toccato. Tocchi l’albero, ma è anche l’albero che tocca te. Quando tocchi un’altra persona, non la stai necessariamente manipolando: anche lei ti tocca.
Avviene lo stesso con la musica: io la ascolto, ma anche lei ascolta me. Le narrazioni del teatro dei sensi sono soggetto- soggetto, non soggetto-oggetto. Non stiamo parlando di una relazione cartesiana, ma di una relazione animista. Una cosa è animare, un’altra è manipolare. Noi preferiamo animare, ovvero “svegliare”, “cercare” l’anima.
In castigliano armadio, quello per i vestiti, si dice armario. Noi ci siamo inventati un’altra parola: almario, un armadio per le anime. La nostra idea è quella di costruire un guardaroba per l’almario! Normalmente scriviamo la sceneggiatura in cinque codici: tattile, auditivo, visivo, olfattivo e gustativo. Poi li tessiamo insieme. Durante lo spettacolo utilizziamo ventidue profumi diversi; facciamo in modo che non si sovrappongano e che siano percepiti a livello inconscio. Un lavoro simile viene fatto anche per il tatto.
Come viene gestita l’interazione tra di voi e con il pubblico?
Abbiamo un preciso collegamento interno; nell’oscurità sembriamo separati, ma in realtà siamo in grado di accorgerci se il compagno cinquanta metri più in là ha il mal di testa. Raggiungiamo un “respiro condiviso”, anche attraverso gli odori. Sì, lo so che sembra inverosimile ma è così: dall’odore di una persona si può riuscire a capire se è felice, se è spaventata, se è giovane o se è vecchia. In Amazzonia c’è una comunità dove prima di fare un tratto di strada con te ti annusano per sapere se stai dicendo la verità o no. Esiste l’odore della verità. E funziona, te lo posso assicurare. La verità profuma.
Negli spettacoli si ha la sensazione di poter partecipare attivamente, ma in realtà si è molto guidati. C’è difficoltà nel creare questo equilibrio o viene naturale?
Deve essere naturale. A volte tendiamo a manipolare più del dovuto, ma è un nostro errore. Cerchiamo di non farlo, ma può accadere perché abbiamo la necessità di dare la massima autonomia e anche la massima sicurezza. Un dilemma ben noto ai genitori. Anche noi a volte ci troviamo a pensare: “Lì c’è un angolo, è pericoloso”.
Avete mai avuto difficoltà di qualche genere durante gli spettacoli? Qualche spettatore è stato preso dal panico?
Può accadere che una persona si possa sentire senza respiro, ma non succede se le dai sufficiente sicurezza. Magari c’è qualcuno che vuole piangere: ben venga. Oppure c’è chi vuole uscire, anche se questo non succede spesso. Fa tutto parte del tema dell’accompagnamento. L’intimità e lo spazio di ciascuno vanno rispettati. Ma attenzione: il nostro lavoro è più poetico che terapeutico. L’esperienza poetica può essere anche terapeutica, ma restano due cose distinte. Durante l’esperienza terapeutica si crea una relazione terapeuta-paziente, dove i due soggetti si trovano a livelli diversi. Nel teatro dei sensi non è così: il rapporto tra noi e il pubblico è sempre un rapporto soggetto-soggetto, non c’è il dottore che sa tutto.
La vostra scenografia ha un carattere molto artigianale e viene costruita anche con l’aiuto degli attori, che dunque non si limitano a imparare una parte, ma sembrano avere un ruolo molto più ampio.
Sì, perché ci teniamo molto a creare la scenografia con le nostre mani. Normalmente facciamo tutto da soli, ad esclusione di qualche elemento, come per esempio l’impianto elettrico. Della scenografia colpisce anche il particolare senso estetico, che rimanda all’antico e al passato. Per noi è importante aprire le porte alle sensazioni più archetipiche.
Durante lo spettacolo si vive in una sorta di sospensione temporale. Vi chiedete mai se lo spettacolo potrebbe risultare troppo lungo o troppo corto per gli spettatori?
Il tempo è sempre relativo. Un’esperienza che per noi non ha significato può apparirci molto noiosa. Dunque, non importa se l’esperienza teatrale è corta o lunga, quello che conta è il suo significato. Noi cerchiamo di dare la possibilità di vivere l’esperienza con un’intensità, o meglio una densità, che spesso durante la giornata non sperimentiamo.
L’esperienza è così piacevole che verrebbe quasi voglia di rifare qualcosa di simile a casa.
Uno degli esercizi dei nostri laboratori è proprio quello di organizzare degli eventi a casa con gli amici: una cena sensoriale o altre celebrazioni dei sensi. Sempre nella dimensione del rito: è importante celebrare con il corpo. Ognuno di noi ad esempio potrebbe preparare una festa sensoriale per il proprio compagno o la propria compagna.
Come nasce un nuovo spettacolo?
La nostra drammaturgia verte sui temi della domanda e del gioco. ll punto di partenza di un nuovo spettacolo è sempre una domanda. Il lavoro poi consiste nel renderla fisica, nel trasformarla in un gioco. L’obiettivo non è rispondere alla domanda, anzi il contrario: la domanda dev’essere sempre aperta. Magari da una domanda può nascerne un’altra, ma non ci deve mai essere una risposta dogmatica. Dietro a ogni buon gioco c’è sempre un mistero. Questo è il punto essenziale.
In un mondo sempre più dominato dai mezzi di comunicazione virtuali, che significato assume il vostro teatro?
Il teatro è sempre più necessario, perché tutto ciò che è virtuale può essere manipolato e quindi è pericoloso. Ma il corpo non mente. Non a caso, quando abbiamo portato un nostro spettacolo in Cile durante la dittatura di Pinochet, è stato ritenuto sovversivo. Inoltre, con il teatro dei sensi ci rapportiamo a elementi che nella vita moderna sono diventati molto rari. Per esempio il silenzio e l’oscurità. Non li conosciamo più ed è soprattutto per questo che ne siamo spaventati.
Raccontando della nascita del teatro dei sensi in Amazzonia, parlavi di una differenza tra contadini e cittadini. Noi siamo più costruiti, abbiamo addosso più strutture. Nei tuoi spettacoli c’è un tentativo di riportare all’autenticità?
Credo sia soprattutto una questione di identità, perché autenticità e identità vanno nella stessa direzione. Quando nei nostri spettacoli creiamo uno spazio per la libertà, lo creiamo anche per l’autenticità.
Enrique Vargas, classe 1940, si forma presso líAccademia di arte drammatica di Bogotà e presso l’Università del Michigan, laureandosi in antropologia teatrale e iniziando le prime esperienze professionali, in particolare col prestigioso centro teatrale “La Mama” di New York. Ottenuta la cattedra di drammaturgia dell’immagine sensoriale presso l’Università nazionale di Bogotà, passa quindici anni a studiare i giochi, i rituali e i miti dellíAmazzonia, per poi fondare nel 1993 la Compagnia Teatro de los Sentidos, con la quale approfondisce il tema della poetica sensoriale.