Equazione: la satira di Arianna Porcelli Safonov
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Un altro motivo è che quel risultato lì in genere bisogna tirarlo fuori in un tempo limitato a poche ore in un’aula, se non si vuole restare al liceo per un ventennio. Nulla della matematica mi ha mai affascinata se non il mistero stesso della sua incomprensibilità, dei suoi connotati simili a quelli di una lingua antica, sconosciuta, inaccessibile come il risultato dei suoi processi, se non si ha in mano un gigantesco calcolatore, grande come i primi Macintosh.
Quelli che sbrodolano le bellezze del numero a me fanno paura. L’unica entità matematica a non avermi lasciata indifferente o intimorita è l’equazione, ma solo perché la si utilizza anche come modo di dire, per intendere un rapporto di corrispondenza fra due cose che si vogliono bene.
A scuola, non ne ho mai risolta mezza di equazione, ma sono riuscita ad intuire che, quando si aggiungono degli ingredienti compatibili, scaturiscono nuove idee complementari e questo avviene anche in società, senza rompersi il cranio coi numeri di merda.
Facciamo qualche esempio pratico: «La visita di una città con un clima mite sta all’incontro con gente più o meno amichevole» è un’equazione. «La visita ad una città con un clima poco felice sta all’incontro con gente che indossa fili di perle ma poi ammazza i vicini di casa» è un’equazione.
Ancora: «Da qualche anno a questa parte i poveri stanno aumentando e sono tutte persone colte» è un’equazione sociale, come quella che teorizza la certezza che: «Ai nuovi ricchi corrisponde l’ignoranza più cupa e blasfema in circolazione e, talvolta, anche la casa in Versilia».
Più che un’equazione, questa è una statistica o una brutta notizia, fate voi, ma per quanto mi riguarda non esiste un’equazione che non sia anche una brutta notizia e le statistiche ultimamente partoriscono solo brutte notizie e questa, sì, che è un’equazione.
Sembra che la cultura approfondita, quella seria, con dati, date e nomi, dia come ovvio risultato la sicura povertà senza possibilità di variabili. Questo postulato si affianca alla certezza che i ricchi stiano aumentando ma che siano, nella maggior parte dei casi, frivoli e descolarizzati come il buco di sedere di una capra selvaggia che produce montagne di pepite nere, di cui non c’era proprio bisogno.
Viene da chiedersi, a questo punto, perché fino a poco tempo fa i ricchi fossero molto spesso eruditi e impegnati ad un’attenta e continua preparazione in svariati campi, mentre i poveri dovessero lavorare duro, con la speranza di poter mandare i propri figli a studiare, mentre ora, che l’istruzione è gratuita, i poveri studino come disperati per lavorare duro come professori, a mille euro al mese, mentre i ricchi girino con le Lamborghini maculate e paghino per mandare avanti i propri figli, in modo che abbiano uno straccio di pezzo di carta per proseguire una progenie che andrebbe fermata a morsi.
Viene da chiederselo ma si rischia di soffrire ed io, a questo tipo di sofferenza, preferisco la matematica.
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