Food forest. Il nome ha un qualcosa di esotico, che fa pensare a un paradiso lontano. Ma è solo una suggestione della lingua inglese, che ci rimanda a chissà quale foresta e che forse è del tutto inadatta a esprimere il concetto di «giardino commestibile».
La necessità di usare il suolo per la produzione di cibo nei pressi delle abitazioni, in luoghi protetti da animali selvatici, è da sempre presente in quasi tutte le culture e le epoche, ed è quanto di più sano ed economico possiamo considerare oggigiorno.
Solo a una società scissa e parcellizzata come quella occidentale appare come una novità, o addirittura come un vezzo intellettuale. Ciò accade proprio perché la cultura occidentale separa, più che integrare. Non siamo più abituati a percepire l’armonia della multifunzionalità in un elemento che abbia varie sfaccettature e multiformi sfumature.
Per questa ragione, troviamo nell’organizzazione del territorio, del lavoro e del sociale, tutti elementi separati l’uno dall’altro. Ad esempio, la produzione di cibo viene separata della fase di trasformazione e del consumo; l’arte viene racchiusa in spazi dedicati e non fruita nella quotidianità; le vacanze sono ben distinte dal lavoro; gli anziani vengono sistemati in moduli separati dal resto della società e non stanno a contatto coi bambini, della cui relazione godrebbero entrambi. E per connettere tutti questi elementi separati diventano necessari mezzi di trasporto energivori e inquinanti.
Senza rendercene conto continuiamo a creare elementi divisi con gran dispendio di energia: un orto separato dal frutteto, a sua volta separato dal giardino o dalla casa, e i rifiuti che ne conseguono ormai prendono un posto centrale, davanti all’entrata delle nostre case, con contenitori dai colori sgargianti.
Siamo culturalmente condizionati a vedere in un giardino solo un luogo estetico, un elemento d’obbligo che accompagna le dimore, troppo spesso non vissuto abbastanza e separato drasticamente dai luoghi preposti alla produzione di cibo.
Le funzioni di base che può svolgere un giardino commestibile sono molte e, come in ogni sistema complesso, con il tempo altre caratteristiche sorprendenti emergono spontaneamente.
Il giardino può essere uno spazio per produrre parte del nostro cibo, trasformare i rifiuti, creare un luogo armonioso ed estetico, ospitare fauna e flora selvatica, ripristinare l’autofertilità naturale del suolo, passare del tempo ossigenando il nostro corpo col movimento, accumulare legna da costruzione e da ardere, ricevere spunti per nutrire il lato artistico presente in ognuno di noi, raccogliere piante per preparare tisane, tinture, rimedi per la salute e tanto ancora.
Un nuovo approccio alla salute
La food forest, o più propriamente la macchia commestibile in clima mediterraneo, offre un incredibile arricchimento alla nostra dieta, con il necessario apporto di oligoelementi, sempre meno presenti negli alimenti industrializzati, ma di cui non possiamo più ignorare l’indispensabile funzione di regolazione del nostro organismo. Inoltre, la maggior parte della piante selvatiche che possono essere integrate nel nostro sistema sono sia commestibili che medicinali, ovvero sono dei veri e propri nutraceutici.
Oltre a permetterci di variare la nostra dieta, dandoci nuovi e ricchi alimenti, il giardino commestibile può anche stimolare i nostri sensi. L’armonia che si crea attraverso i suoi profumi, colori e suoni, è importante per la nostra salute psicofisica ed è un piacere poterla vivere. La presenza di piante, se disposte con giudizio, può anche modificare l’andamento del clima, formando zone di microclima dove temperatura, umidità e altri parametri si alterano meno drasticamente.
Si possono creare zone d’ombra, con presenza di stagni, radure aperte al sole, parti impenetrabili e altre aree più ampie e comode.
Anche il lavoro fisico che vi dobbiamo svolgere, se fatto con una consapevole respirazione e attenzione ai movimenti del corpo, può diventare fonte di benessere.
Saper leggere il libro della natura
Un giardino commestibile può avere diverse dimensioni, da qualche decina di metri quadri a interi ettari, a seconda delle nostre esigenze e disponibilità. Possiamo partire con una piccola estensione, per poi ampliarla in seguito, o lasciarne alcune zone in totale autonomia, destinandole alla raccolta di erbe, radici e frutti spontanei, così come si fa con un terreno selvatico.
La complessità del tutto dipende dallo stato del giardino, ma anche da noi, dalle capacità fisiche, l’età, il tempo a disposizione, le nostre necessità e le molte funzioni che quello spazio specifico è in grado di svolgere. Nel modificare un luogo, volendo realizzare un giardino commestibile, non dobbiamo farci limitare da nessun concetto prestabilito, solo così potremo scoprire molte caratteristiche inaspettate. E tenendo presente che il viaggio è più importante della meta.
La nostra meta è certo quella di creare un ecosistema che sia il più indipendente da noi, e per fare questo dobbiamo imitare la natura nei suoi numerosissimi aspetti, anche se molti di essi ci sono ancora incomprensibili. L’obiettivo è lavorare in alleanza con essa e non contro.
Nell’osservare la natura così come si manifesta in un bosco, nel comportamento di un animale selvatico, nella ciclicità delle stagioni, è necessario liberarci dei preconcetti provenienti dalla nostra cultura ed evitare di appioppare etichette che bloccano la nostra osservazione. Forse questo aspetto è quello più difficile per noi umani occidentalizzati, che troppo spesso rileggiamo il tutto sotto una visione antropocentrica e culturale, anche dove l’uomo non c’entra nulla, non c’è mai stato o non ci dovrebbe essere.
Passaggi graduali, tra il selvatico e il domestico
Quando ci accingiamo a creare un giardino commestibile dal «nulla», dobbiamo seguire il più possibile questo schema e non affrettarci a bruciare le tappe, aiutati dalla potente tecnologia che abbiamo a disposizione. Più il sistema che organizziamo è indipendente dalle nostre tecnologie e meglio risponderà a eventuali cambiamenti, impossibili da prevedere. Ad esempio, pompare acqua dalle falde con motori a turbina e irrigare troppo soventemente le piante appena trapiantate non permette alle giovani radici di penetrare in profondità o di utilizzare l’acqua di condensa, come farebbero se appartenessero a un sistema selvatico. Così facendo, non creiamo altro che organismi «viziati», dipendenti dai nostri input, non più capaci di badare a loro stessi.
Inoltre, una crescita esagerata attira un gran numero di «commensali», quelli che noi chiamiamo «parassiti», e può facilitare l’insorgere di patologie inaspettate, il cui trattamento porta via ulteriore energia e tempo. Certo, l’aspettativa che ogni elemento aggiunto possa svilupparsi completamente è da relativizzare; molto spesso in natura ciò che muore è nutrimento o sostegno per altri elementi, senza dramma alcuno. Difficile questo passo per noi animali colti!
L’obiettivo non è quello di creare un sistema sotto il nostro rigido controllo, come può essere un bel giardino all’italiana, che rischia di diventare uno sterile «status symbol», energivoro e non funzionale, bensì qualcosa di molto più complesso, le cui caratteristiche si muovono tra il selvatico e il domestico. Si tratta di realizzare un ecosistema dove molti sono gli elementi multifunzionali, le connessioni inaspettate e le qualità emergenti in grado di sorprenderci; un «luogo» quadrimensionale di cui facciamo parte inevitabilmente, in cui lavoriamo e di cui godiamo.
Creare luoghi fertili: le conoscenze necessarie
Metà della popolazione umana abita in centri urbani dove è molto raro incontrare ecosistemi sani e in pieno sviluppo. Dell’altra metà, la maggior parte abita campagne ormai degradate, inquinate e ridotte a sterili luoghi di duro lavoro. Sono relativamente pochi gli umani che vivono a stretto contatto con una natura intensa da cui, essendone indissolubilmente inglobati, apprendono quelle leggi naturali che sussistono da quando la vita è apparsa su questo Pianeta. È da queste leggi che dovremmo ripartire per poter, imitando la natura, creare giardini commestibili resilienti ai cambiamenti, ma il più indipendenti possibile da noi.
Per quello che conosciamo delle leggi naturali, affinché la vita si sviluppi (nascita, trasformazione, morte e rinascita) sono necessarie alcune particolari condizioni. A livello dei processi, nella rizosfera vi è ancora molto da indagare e comprendere, ma possiamo identificare alcune condizioni fondamentali da cui dipende la fertilità dei nostri suoli: l’umidità, la perfusione dei gas, il tepore e la diffusione di luce. Giocando con queste quattro condizioni, una interrelata con l’altra, è possibile migliorare la situazione anche di terreni dall’aspetto esausto.
In queste condizioni limitanti per la fertilità, possiamo trovare due situazioni base opposte.
Da una parte terreni calcarei, generalmente drenanti, sabbiosi, con una percentuale di carbonato di calcio (CaCO3) superiore al 15%, un pH superiore a 8.5, con formazione di sali sodici (carbonato e bicarbonato di sodio), bassa disponibilità di ferro (Fe), zolfo (S) e potassio (K). Dall’altra suoli per lo più pesanti, facilmente compattati, con un pH acido (inferiore a 6.8), dove calcio (Ca), magnesio (Mg), sodio (Na) e potassio (K) vengono facilmente lisciviati. Dunque, troppo spesso ci troviamo nella situazione in cui nel terreno sono presenti tutti gli elementi indispensabili, ma dove gli stessi non sono disponibili per mancanza di connessioni benefiche. Per tutte queste ragioni, forse è meglio agire sulle condizioni dell’ambiente in toto e ridare vita alla fertilità, piuttosto che incaponirsi a voler modificare i singoli parametri.
Riconoscere le piante utili
La vegetazione presente, alberi e arbusti sia spontanei che piantumati dall’uomo, rappresenta un ottimo punto di partenza per il nostro percorso di trasformazione. Ciò che già c’è non va mai eliminato senza apprendere le relazioni esistenti e senza dimenticare che nella rizosfera ci sono microrganismi simbionti strettamente legati alla flora caratteristica del luogo.
Anche la parte aerea, che queste piante occupano con le loro fronde può fornire utili indicazioni circa l’andamento dei venti, l’umidità, l’esposizione al sole e altre informazioni indispensabili per evitare madornali errori di ubicazione. Ma, in realtà, le indicazioni che possiamo ricavare da un’attenta osservazione delle piante spontanee sono davvero numerose.
Le ginestre, per esempio, essendo leguminose, si legano quasi tutte in simbiosi a livello delle radici con dei batteri (i rizobi) in grado di fissare l’azoto atmosferico. Queste piante simboleggiano l’umiltà e la capacità di resistenza. Sono specie pioniere, tra le prime presenti dopo devastazioni dovute a eruzioni o incendi. Possono attecchire in terreni semi-aridi, ma ricchi di minerali, e preparano il terreno ad altri arbusti più esigenti. Hanno un turnover di pochi anni e quindi creano molta sostanza organica.
Un’altra pianta molto interessante è l’inula viscosa, un piccolo cespuglio presente in tutte le zone mediterranee, che spesso vive lungo il ciglio delle strade. La sua presenza denota una grande quantità di metalli pesanti dispersi nel terreno e la necessità di sequestrarli e accumularli, attività di cui è capace questa pianta e i microrganismi a essa legati. Fiorisce nel periodo più caldo dell’anno, nutrendo api e altri insetti e contiene resine dal forte aroma. La sua presenza nei pressi degli oliveti aiuta al contrastare la mosca dell’olivo.
L’ortica, erbacea perenne e ubiquitaria ai nostri climi, è invece una nitrofila (cresce bene in presenza di molto azoto disponibile), ama l’umidità e la mezzombra. Svolge un’azione fertilizzante, aumenta la sostanza organica e rende disponibili i metalli presenti nel suolo. È una pianta molto interessante dal punto di vista nutrizionale, si può consumare quotidianamente e costituisce «un pasto completo» non solo per il suolo, dove si può distribuire sotto forma di macerati, ma anche per noi, poiché è ricca di tutti gli amminoacidi essenziali, di vitamina C e minerali. La sua presenza ci mostra, inoltre, dov’è l’umidità, e da dove ripartire per risanare la fertilità di un suolo.
Questi sono solo alcuni esempi di come, attraverso lo studio delle piante spontanee sia possibile individuare, con un po’ di ricerca, le caratteristiche principali di un suolo e conoscerne le sue condizioni al momento dell’osservazione. In definitiva, le piante presenti su una determinata superficie di terreno ci possono aiutare a riconoscere le zone più protette di quel suolo, la presenza di erosione o di fertilità, ma soprattutto dove e come iniziare a modificare quel luogo per realizzare un giardino commestibile.
Trasformare gli scarti con il compostaggio
Implementare la rigenerazione del terreno è essenziale, soprattutto se il suolo è molto povero e compattato.
È una pratica che può continuare all’infinito, poiché permette di riciclare anche i nostri scarti di cucina. Quasi tutto può essere trasformato attraverso il compostaggio, dai materiali di origine organica (vegetale e non) a quelli inorganici, come cenere e metalli. L’importante è tener presente che, in generale, le sostanze inquinanti lo sono per la loro quantità, più che la qualità. Ovvero, se aggiungo poco di qualche sostanza sospetta e permetto a una grande quantità di microrganismi, con a disposizione molto margine e parametri adeguati, di metabolizzarla, questa viene scissa e ridistribuita o accumulata in parti specifiche, ma in genere non crea problemi al sistema. A tutto c’è rimedio e la natura ci insegna a trasformare tutto quello che ci può ostacolare.
Il compostaggio non è altro che l’azione senza sosta che fa la vita da sempre. Il metabolismo (vita) si divide tra il costruire corpi e organismi (concepimento e nascita) e smontarli (morte e decomposizione). In questo continuo fare e disfare, noi, novelli Penelope, possiamo solo beneficiare del movimento per aumentare la qualità delle nostre vite e di ciò che ci sta attorno.
Un modo molto rapido per trasformare resti organici, come la massa proveniente dalle compost-toilet, gli abbondanti sfalci di potatura, le foglie del bosco e i resti di cucina, è il bokashi, una tecnica di origine giapponese praticata da anni in Sud America per colture intensive a basso costo e di ottima qualità, di cui Jairo Restrepo (2007) è divulgatore attento anche in Occidente. A seconda delle circostanze, del materiale che abbiamo in abbondanza, del tempo e delle finalità, possiamo modificare le modalità e permettere ai microrganismi di fermentare propriamente (ovvero scomporre) e ottenere come risultato un humus con minerali e oligoelementi facilmente disponibili per le piante.
Piante autoctone e non solo
Il giardino commestibile è organizzato a imitazione della natura nella sua complessità, una scelta che permette di mantenere l’omeostasi e di conseguenza una buona salute. Uno dei cardini della complessità è certamente la biodiversità. Per questo nella scelta delle piante non dobbiamo limitarci alle specie autoctone.
Le piante sanno viaggiare e lo fanno da prima dell’arrivo dell’essere umano, attraverso il vento, l’acqua e gli animali. Il nostro lavoro è soprattutto quello di creare diversi microclimi, in cui poter integrare anche piante venute da lontano o specifiche di altri climi.
Inoltre, la scelta delle specie da seminare, trapiantare o piantumare non dev’essere effettuata solo badando alle nostre esigenze; nella fase iniziale dobbiamo fare in modo di avere nel nostro giardino le piante essenziali per la fertilità del suolo e per la salute della flora e della fauna del luogo.
Le prime piante da prendere in considerazione sono le cosiddette «piante pioniere»: specie estremamente adattabili a terreni esausti o a condizioni climatiche estreme, dove riescono a conservare capacità riproduttiva e colonizzatrice. Inoltre, sono piante a crescita rapida, anche in condizioni di ridotta presenza di nutrienti. Possiamo utilizzarle per molte altre funzioni, in attesa che il sistema diventi idoneo a ospitare specie più esigenti o delicate.
Tra le pioniere più utili ritroviamo le specie azoto-fissatrici arboree, come ontano, robinia, mimosa, pisello siberiano; arbustive, come ginestra, olivello, coronilla (caratterizzata da un esteso apparato radicale); ed erbacee, come lupino, veccia, sulla, erba medica, trifoglio nano e trifoglio sotterraneo.
Altre erbacee pioniere perenni, particolarmente efficienti nell’accumulare azoto, potassio e fosforo a livello della parte aerea sono ortica, consolida e le specie appartenenti alla famiglia delle Brassicacee.
Con lo sfalcio di queste piante utilizzato come pacciamatura è possibile reintegrare molti nutrienti, contribuendo così a rendere disponibili, unitamente agli alberi e arbusti azoto-fissatori, gli elementi indispensabili provenienti dal suolo e dall’atmosfera.
Altre piante caratterizzate da una crescita rapida, in grado dunque di apportare molta sostanza organica, essenziale per ricostruire una struttura sana del suolo sono il bagolaro, o spaccasassi, il cui legno è utilizzabile per modellare manici resistenti, l’olivo d’autunno, il Teucrium (particolarmente indicato per i terreni calcarei), il timo greco, la salvia di Gerusalemme, la phillica, la felisia (per terreni sabbiosi) e l’albero del paradiso, più noto come ailanto.
Per contenere lo sviluppo, delle altre piante molto vigorose, ad esempio la robinia, è consigliabile lasciare solo pochi individui ed effettuare potature molto decise, a «bonsai». Quando incontriamo una pianta più «espansiva» di altre, soprattutto quando si tratta di una specie indesiderata, o di cui ci vogliamo sbarazzare, dobbiamo comprendere che la sua presenza è utile al sistema e che se è lì, è perché ci sono delle nicchie (di energia, spazio o tempo) vuote che quella pianta è andata a utilizzare. Dunque, prima di eliminarla è bene affiancarla con altre piante dalle simili esigenze. Una volta che altre piante espleteranno le sue funzioni indispensabili, la specie infestante tenderà a scomparire.
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IL LIBRO
Tradotto in italiano con «foresta o giardino commestibile», il termine
food forest sta a indicare
un sistema agricolo multiuso e multifunzionale, dove convivono alberi da legname, piante da frutto, erbe medicinali, leguminose, cereali e ortaggi in sinergia con le piante spontanee e gli animali del luogo. Che si tratti di un piccolo appezzamento o di una grande area rurale, l’obiettivo è quello di
ricreare o ripristinare la più ampia biodiversità possibile, simile a quella che si può riscontrare in un
ecosistema forestale.
Considerata ormai la nuova frontiera della permacultura, la food forest dà priorità alla coltivazione in consociazione di specie perenni o pluriannuali, in modo da ottenere elevate produzioni di cibo con il minimo dispendio di energia sotto forma di ore di lavoro e consumo di acqua, carburante, concimi e antiparassitari.
Forte della lunga esperienza professionale, maturata in Italia e all’estero, l’autrice illustra in dettaglio e con numerosi esempi pratici come realizzare una food forest anche nel nostro clima, caratterizzato da notevoli sbalzi termici e da scarsa disponibilità idrica.
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