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I mesi dell’anno nel ciclo della Pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo

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Andiamo a vedere, mese per mese, gli elementi comuni di queste rappresentazioni nel confronto con le testimonianze di Pietro Pinti, contadino del secolo scorso.
I mesi dell’anno nel ciclo della Pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo

Gennaio

Nel mese più freddo dell’anno, il simbolo che prevale è il fuoco. Di solito viene rappresentato un contadino di fronte alla fiamma, a volte con un pentolone di legumi e salsicce appese da seccare. In altri casi ci sono i portatori di legna, delle donne o dei signori ben vestiti. La figura simbolica ricorrente è Giano (Ianus), una delle divinità più antiche e più importanti della religione romana e italica, associato alla casa e alla porta (Ianua). Il Giano bifronte può guardare il futuro e il passato, avendo due facce rivolte in direzioni opposte. Tuttavia, più che essere rappresentato come un Dio, di solito ha l’aspetto di un contadino. Altre volte ci sono invece dei nobiluomini davanti al fuoco. In qualche modo stanno godendo le festività e il riposo.
Le memorie di Pietro Pinti ci riconducono all’altro lato della faccenda: «La cosa più importante di tutte era fare la legna. Ce ne voleva non solo per scaldarsi, ma anche per fare da mangiare […]. Bisognava anche scaldare l’acqua per le bestie d’inverno, gli faceva male bere l’acqua ghiacciata. Allora si tagliavano i quercioli lungo i bordi dei campi o nel sottobosco. Poi si attaccavano le bestie al carro e si portava la legna a casa. Si dice che con la legna ci si riscalda quattro volte: a tagliarla, a caricarla, a portarla in casa e finalmente a bruciarla. È vero ancora oggi, non tutte le cose cambiano».

Febbraio

In alcuni casi è ancora il fuoco il protagonista, ma più comunemente ci sono scene in cui ci si prepara per la stagione lavorativa. Quando inizia a scomparire il ghiaccio dai campi si comincia a preparare il terreno, come si vede nei cicli dei mesi di Parma, Cremona e La Spezia, dove ci sono persone che vangano. Spesso si vedono contadini che potano gli alberi o che tagliano pali per le vigne, o per le staccionate, come facciamo oggi per proteggere i raccolti dall’invasione degli ungulati selvatici. In alcuni casi c’è un attività di pesca, come raffigurato al Duomo di Lucca, a Sessa Aurunca (Ce) e a Perugia. Jenny Bawtree spiega che è un influsso apportato dalle maestranze bizantine dell’epoca, perché in Italia non è un periodo molto favorevole per la pesca. Che abbia a che fare con la quaresima e il divieto di consumare carne?

Marzo

Nell’immaginario medievale ci sono tre figure che rappresentano questo mese. Uno è Marcius Cornator: una figura dai capelli spettinati che soffiava in uno o due corni, simbolo dei venti e dei temporali tipicamente primaverili. Lo si ritrova nel ciclo di Arezzo e di Ferrara. Un’altra figura tipica è lo Spinario, di derivazione ellenica, raffigurante un giovane seduto mentre, con le gambe accavallate, si toglie una spina dalla pianta del piede sinistro. Ci sono ovviamente anche delle interpretazioni simboliche e religiose: la spina rappresenta il peccato da estirpare. Jenny ci fa a notare che a Otranto (Le) c’è un uomo nudo che sta raschiando con un pezzo di legno: come può levarsi la spina in quel modo, forse si pulisce i calli? È chiaro che si tratta di un’azione di purificazione.
Pietro Pinti ci dice che era il mese dedicato alla potatura. «Nel mese di marzo si potava». E poi ci lascia un ammonimento importante: «Il legname non si buttava via, si usava per bruciare. Ora è d’usanza bruciare le potature nel campo, ma devo dire che soffro quando vedo tutta quella roba sprecata». Nelle memorie del contadino toscano, a marzo «bisognava sgobbare parecchio » perché era anche il mese della semina, ovviamente a spaglio. «Se seminavi tutto il giorno ti venivano i crampi alla mano, perché avevi fatto quel gesto migliaia di volte. Comunque era un lavoro che dava tanta soddisfazione, bisogna farlo per capire».

Aprile

È il mese forse più spensierato, almeno per i nobiluomini che si godono la primavera.Quasi sempre si rappresenta un giovane nobiluomo che tiene in mano un ramo fiorito. In casi più rari si rappresentano dei pastori, a volte intenti a tosare le pecore.

Più umile la versione di Pietro. «Sarà» ricorda nell’autobiografia «ma c’era tanto lavoro da fare che non c’era tempo di guardare i fiori. In aprile si finiva di seminare e di potare. Si seminava anche la verdura nell’orto, le cipolle, il cavolo nero, gli agli e i pomodori. Si seminava anche l’insalata, ma se ne mangiava meno a quei tempi, perché per condire l’insalata occorre l’olio di oliva e di quello bisognava contare ogni goccia».

Maggio

Anche maggio è molto idealizzato perché si rappresenta molto spesso un nobiluomo a cavallo. Consideriamo anche che nelle corti dell’epoca imperava il Dolce Stilnovo. Il cavaliere o va alla guerra oppure sta portando dei fiori alla sua dama. In alcuni casi aveva in mano una falce, perché era concesso tagliare l’erba per la strada per il proprio cavallo. In alcune rappresentazioni c’è un falco sul braccio. A volte non c’è lo spazio per un cavallo, ma si taglia solo l’erba con la falce per fare il fieno.
«Nel mese di maggio dovevamo fare il fieno per le bestie» ricorda Pietro. «Quello di maggio si chiama il primo taglio, era una mescolanza di erba medica e altre erbe che crescono spontaneamente nei prati. Il secondo taglio si faceva alla fine di giugno. Se il tempo permetteva si faceva un terzo taglio a settembre, ma il primo era quello più abbondante. Prima si tagliava l’erba con la falce fienaia. Si lasciava il fieno per terra per un paio di giorni, poi si girava per asciugare quella parte che era a contatto con la terra. Quando era asciutto anche quello si facevano dei moncelli e si veniva col carro per portarlo all’aia».

Giugno

Dal punto di vista iconografico, per la lettura del ciclo dei mesi è il mese più semplice da spiegare. Giugno è il periodo della mietitura del grano, e si rappresentano delle spighe che vengono tagliate con un falcetto. In alcune regioni del Nord si faceva il fieno, e si dedicava la mietitura del frumento a luglio.
«In questo mese cresceva ogni cosa e questo ci dava molta soddisfazione» racconta Pietro. «Si cercava di avvantaggiarsi in tutti i lavori del podere per liberare il prossimo mese per quello più faticoso dell’anno: la raccolta. Si continuava a zappare perché quello era un lavoro che non finiva mai e si lavorava nell’orto per incalzare le patate e levare le erbacce […]. Ora faceva caldo, allora cominciavamo a lavorare presto la mattina, alle cinque faceva già luce. Durante le ore più calde ci si riposava un po’ sul letto. Naturalmente si andava scalzi, nessuno portava gli zoccoli da marzo in poi. I piedi diventavano duri, si poteva camminare anche sui sassi senza sentire niente».

Luglio

È il mese della trebbiatura, che tradizionalmente veniva effettuata in due modi: o battendo la granella sull’aia con il correggiato, una sorta di frusta con due bastoni legati con una corda di cuoio, o con l’uso del cavallo o di altri animali che venivano legati e giravano in tondo pestando i covoni del grano. Nel ciclo dei mesi di Parma, Ferrara ed Arezzo viene utilizzato il cavallo.
Pietro Pinti si ricorda commosso il periodo della trebbiatura, che al suo tempo si effettuava già con l’ausilio di una vecchia trebbiatrice. «Per battere il grano ci voleva parecchia manodopera, ma quella si trovava facilmente. Molti braccianti erano disposti ad aiutare, ma non per un compenso: chi li aveva i soldi per pagarli? Venivano solo per poter partecipare al pranzo che le massaie preparavano mentre gli uomini lavoravano. A casa nostra era un pranzo sostanzioso perché dopo tutta quella fatica ci veniva una fame da lupi».

Agosto

Più comunemente nel ciclo dei mesi si riparano le botti per la vendemmia, si stringono i cerchi. A volte si coglie la frutta, fichi o mele. A volte c’è un uomo allettato. È il mese del caldo, della fiacca, e anche della malaria. Anche i contadini erano stremati.
«Una volta finita la raccolta dovevamo battere le fave, i ceci, le vecce, i fagioli, le cicerchie» racconta Pietro Pinti. «I ceci e i fagioli erano per noi, le altre cose per gli animali. Nei campi si facevano dei moncelli di queste piante, e quando erano  secche si portavano nell’aia e si battevano con un attrezzo che si chiama “coreggiato”. Avrete già capito che specie di rumore faceva! Nel mese di agosto dovevamo pulire i campi e prepararli per la prossima stagione. Prima bisognava “stecciare” la terra, cioè lavorarla dov’era stato il grano. Si attaccavano i buoi all’aratro e si andava profondo, venti, trenta centimetri. Così portavamo alla superficie tutte le radici della gramigna e di altre erbacce e si seccavano ». In questo mese si pulivano anche i fossi, utilizzati per regivari scopi. «Ora nessuno cura più le pozze e i fossi» racconta Pietro. «Questa è una delle ragioni per cui ci sono tante alluvioni e tante frane. Nel passato il contadino cercava di trattenere l’acqua, invece ora corre tutta giù a valle, con le conseguenze che conosciamo».

Settembre

Viene raffigurata quasi sempre la vendemmia, anche nelle regioni più a Nord, fino al Canton Ticino. C’è chi coglie, c’è chi pesta l’uva nel tino, c’è che travasa il vino. A volte c’è la riparazione delle botti.

Stesso tema anche per Pietro Pinti: «Per prepararsi alla vendemmia, bisognava preparare ogni strumento, tra cui i cesti per raccogliere l’uva, fatti con i castagni più giovani. Le ceste si facevano in tutte le maniere secondo la loro funzione, perché non esistevano ancora i recipienti di plastica. Si usavano per portare la legna, per raccattare l’erba per i conigli, per prendere le uova, per raccogliere le olive e le castagne, per portare i bozzoli dei bachi da seta al mercato, e così via».

Ottobre

Un mese rappresentato in modo diverso a seconda dell’area geografica. Nel ducato di Milano è il mese della raccolta delle castagne. Come ci fa notare Jenny Bawtree, spesso i raccoglitori sono scalzi con vestiti strappati: in Toscana erano i contadini senza terra, i pigionali, che potevano cogliere solo quello che rimaneva dopo che erano passati i contadini proprietari. In questo periodo, tra ottobre e novembre, si lavora la terra con i buoi per la semina. In altri casi ci può essere continuazione della vendemmia, quando si pesta il mosto nel tino o si travasa il vino. Molta importanza viene data anche alla raccolta delle rape, soprattutto in Pianura Padana.
Nelle memorie contadine toscane ottobre era il mese in cui bisognava cominciare a seminare il grano. Si seminava dappertutto dove c’era un po’ di spazio: non solo nei campi che erano riservati a questo scopo, ma anche fra le viti e gli olivi.

Novembre

Anche questo mese è simboleggiato da attività agricole diverse. A Parma e ad Arezzo, c’è un uomo che svelle le rape dall’orto. In altri casi si lavora la terra e si semina.
A novembre iniziava anche il periodo della raccolta delle olive, ci ricorda Pietro, che oggi si tende a cogliere un po’ prima e più verdi. «Si raccomodavano le cistelle (le ceste) e le scale oppure ne facevamo delle nuove. Si controllava che la terra sotto gli olivi fosse pulita e si raccoglievano quelle olive che erano già cadute per il vento. Poi si preparava la legna per l’inverno, perché, una volta avviata la raccolta, non ci sarebbe stato più tempo per andare al bosco».

Dicembre

Si macella il maiale. Una scena cruenta legata alla tradizione contadina, che potrà impressionare i lettori più sensibili, ma di cui diamo testimonianza per l’intrinseco valore storico e culturale che rappresenta. Nel Canton Ticino lo si faceva a novembre e dicembre ed era il tempo del vitello, che non compare nelle regioni del sud. Diversi fanno la legna per il fuoco in gennaio.
«E così l’anno era bell’e sotterrato» ricorda Pietro. «Era stato pieno di tanta fatica ma anche di tante soddisfazioni. E stava per cominciarne un altro che sarebbe stato esattamente uguale. Non ci passava nemmeno per la testa che sarebbe stato possibile cambiare stile di vita».
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Brano tratto dall’articolo L’arte e la misura del tempo

Leggi l’articolo completo sul mensile Terra Nuova Dicembre 2020
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IL LIBRO

Questo è un libro unico, perché parla di un soggetto affascinante dell’arte medievale finora mai trattato nel suo complesso in un’opera dedicata. È anche un libro che non sarebbe stato mai scritto se un giorno l’autrice, Jenny Bawtree, non avesse intravisto una coppia di anziani ferma a guardare in alto davanti al portale di una chiesa toscana. Avvicinatasi incuriosita, Jenny è rimasta letteralmente incantata da uno splendido ciclo dei mesi: dodici statue che rappresentano le attività, agricole ma non solo, caratteristiche dei dodici mesi dell’anno.

Da quel giorno, l’autrice ha dedicato cinque anni di studio a questa materia, esplorando l’Italia e scoprendo ben 39 cicli dei mesi, nella forma di statue, bassorilievi, affreschi e mosaici, presenti in grandi chiese romaniche, monasteri, ma anche in umili chiese parrocchiali e dimore signorili.
Un tema ripetitivo forse? Al contrario. Anche se i cicli seguono una tradizione medievale che risale all’antichità, ciascun artista interpreta il soggetto secondo la sua abilità, la sua cultura, la sua fantasia.
E mentre i cicli del XII e XIII secolo mettono in risalto la sacralità del lavoro agricolo, in quelli successivi il contenuto vira verso aspetti politico-sociali.
Oggi possiamo leggere in queste opere un messaggio universale sui cicli della natura e una concezione di ecologia ante litteram.
Un libro dichiaratamente divulgativo, in cui l’autrice ha voluto trasmettere la sua passione per questo tema a un pubblico ampio, non necessariamente esperto, offrendoci descrizioni minuziose dei cicli, magistralmente ritratti dal fotografo Opaxir. Un libro d’arte, ma anche un libro di viaggio, che ci invita a visitare luoghi al di fuori dei soliti itinerari turistici.
 

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Laborioso, pragmatico e con un forte senso dell’umorismo, Pietro è un tipico contadino toscano. Ha lavorato la terra con aratro e zappa fin da ragazzo. Nato, come dice lui, «nel Medio Evo», ha visto il mondo che conosceva ed amava diventare storia passata. Fortunatamente per noi ha messo su carta, con l’aiuto di Jenny Bawtree, un resoconto unico di quella cultura contadina che, solo ora che sta morendo, stiamo cominciando ad apprezzare.

Pietro inizia la sua storia con una descrizione della sua infanzia sotto il regime fascista. La sua famiglia abitava in un podere del Valdarno, a una cinquantina di chilometri da Firenze. Come quasi tutti i mezzadri dell’epoca, viveva in condizioni di estrema povertà. Se si vedeva un contadino sovrappensiero si chiedeva: «Stai pensando ai quattrini del sale?». Oltre ai fiammiferi, infatti, il sale era l’unica cosa che il contadino doveva comprare, il resto lo produceva sul podere. Pietro dedica un capitolo intero ad un anno nella vita di un contadino e così impariamo come faceva il vino e l’olio di oliva, come lavorava la terra con i buoi, come foggiava ceste e scale con il legno di castagno: arti che si stanno perdendo man mano che se ne va la sua generazione. Ma la vita non era solo fatica: i contadini sapevano anche divertirsi. La musica, la poesia e la narrazione di storielle animavano le loro serate «a veglia» intorno al fuoco, condite di un’ironia mordente.
Come dice Pietro «i Toscani fanno battute perfino sul letto di morte!». Pietro stesso suonava la tromba, scriveva poesie in ottava rima ed è tuttora conosciuto localmente per i suoi racconti di contadini, cavalieri e briganti. Anche le cerimonie tradizionali della Chiesa offrivano un diversivo importante. Senza essere un cattolico convinto, Pietro ricorda tali avvenimenti con entusiasmo, anche se diventò comunista dopo la guerra («Cantavamo “Bandiera Rossa” ma facevamo battezzare i nostri figli, che male c’è?»). La guerra in realtà cambiò poco la vita quotidiana del contadino, ma Pietro se ne ricorda bene, in particolare l’avanzata degli Alleati, nel 1944, quando gli fu offerta la sua prima tazza di tè in prima linea, da un soldato scozzese. Fu dopo la guerra che arrivarono cambiamenti davvero radicali. Alla fine la mezzadria scomparve e Pietro lasciò la sua terra per sempre.
Pochi anni dopo iniziò a lavorare al centro di equitazione gestito da Jenny Bawtree, prima come stalliere e in seguito come cuoco. Nel corso degli anni le ha raccontato la sua vita come contadino ed insieme hanno creato questo resoconto pieno di colore, umorismo e con un pizzico di nostalgia.

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