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Il biologico che salva l’Africa

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In Senegal lo sfruttamento intensivo dei campi ha accelerato la desertificazione e i costi elevati di semi e fertilizzanti sintetici impoveriscono la popolazione rurale. Ecco la resistenza di un gruppo di agricoltori che fa biologico.
In Africa son già 530 mila i contadini che praticano l’agricoltura biologica. Per alcuni di loro si tratta di una risposta alla crescente domanda di prodotti biologici del mercato europeo. Per altri, invece, rappresenta una reazione alle conseguenze ambientali e sociali dell’agricoltura intensiva. E’ il caso di molti coltivatori del Senegal, in Africa Occidentale, dove la popolazione rurale assiste con crescente apprensione al rapido inaridimento dei campi.
A Guédé Chantier, un villaggio di circa cinquemila abitanti situato nel Nord del paese, un gruppo di contadini si batte per l’introduzione di metodi di coltivazione alternativi al presente sfruttamento intensivo delle terre. Il bio qui non è una scelta di mercato, ma una lotta per la preservazione delle risorse naturali e la sicurezza alimentare.
I danni dell’agricoltura intensiva
Fino agli anni Sessanta, i campi di riso del villaggio erano concimati con il letame di ovini e bovini e si praticava la rotazione delle colture. Un programma di cooperazione tra Senegal e Cina ha poi introdotto in modo massiccio l’agricoltura intensiva. 
Ibrahima (1), un anziano contadino, ricorda che i tecnici agricoli cinesi giunti nel villaggio distribuivano fertilizzanti e pesticidi sintetici: “All’inizio dicevano che li avrebbero venduti. Poi hanno cambiato idea e hanno iniziato a regalarceli. C’erano persino premi per i contadini che ne prendevano quantitativi maggiori. E così, qui la gente ha iniziato a usarli. Il terreno si è impoverito ogni anno di più, fino a diventare sterile”.
Negli anni Ottanta, il programma cinese attuato sul territorio è stato interrotto all’improvviso. Gli agricoltori si sono così trovati a dover sostenere da soli i costi elevati dei fertilizzanti chimici, diventati ormai indispensabili per coltivare i campi erosi dallo sfruttamento intensivo.
Per finanziare i costi delle colture, molti contadini fanno ora ricorso a crediti agricoli, che ottengono impegnandosi ad acquistare i semi ibridi e i fertilizzanti sintetici indicati dalla commissione che decide in merito alla concessione dei crediti.
Tale commissione è composta da rappresentanti della banca del villaggio, delle istituzioni politiche locali e delle imprese produttrici degli input di coltivazione (concime, acqua ecc.). «Il produttore ti dice “questo è il mio prodotto”, e tu lo devi prendere, che sia buono o no. Non hai scelta» dice Ibrahima.
Sotto scacco
In teoria, la concessione di crediti agricoli non prevede vincoli relativi alla vendita del raccolto. In pratica, tuttavia, chi ne beneficia non ha scelta. Da qualche anno, la maggior parte dei contadini del luogo vende il proprio raccolto a un’impresa senegalese legata a una multinazionale spesso criticata per le sue strategie, che includono sia la vendita di input di coltivazione, sia l’acquisto di prodotti agricoli. Inoltre, chi non accetta di vendere allo stesso prezzo degli altri è soggetto a condizioni di restituzione dei debiti più severe.
Dopo mesi di lavoro nei campi, i contadini riescono a malapena a nutrire la famiglia. «Se alla fine del raccolto ottengo ottanta sacchi di riso, sessanta devo darli alla banca per ripagare il debito derivante dal credito agricolo» spiega uno di loro.
A preoccupare sono anche gli effetti ambientali: «Queste terre sono la nostra principale fonte di sostentamento. Cosa succederà quando non daranno più niente?» si chiede una donna del villaggio, facendosi portavoce delle paure di molti.
L’agricoltura biologica e il ruolo dei migranti
Una soluzione possibile viene oggi individuata nell’agricoltura biologica. L’utilizzo di concimi naturali, come il letame, permetterebbe di rallentare la degradazione del terreno e di ridurre i costi degli input di coltivazione. Già dal 2000, un gruppo di contadini del luogo ha iniziato a praticare l’agricoltura biologica su piccoli appezzamenti dedicati al bisogno familiare.
Perché possa essere impiegata su più ampia scala sarebbe però necessario che banche e istituzion locali garantissero il loro appoggio. Agli abitanti di Guédé Chantier tale possibilità appare tuttavia remota.
Un sostegno all’agricoltura biologica è giunto nel 2011 da parte di Amadou (1), un migrante del villaggio rientrato dalla Spagna. Quell’anno il direttore della banca locale aveva minacciato di non concedere crediti a chi non avesse acquistato tutti i fertilizzanti prescritti. «Al che gli ho risposto: meglio così! Non li voglio i vostri soldi. Prendo i miei e faccio quello che mi pare» ricorda Amadou. Poi aggiunge: «Qui la gente lavora solo per la banca, che ci obbliga a usare prodotti chimici!».
Amadou nel frattempo è diventato presidente del gruppo di contadini che pratica l’agricoltura biologica. I terreni sono destinati principalmente alla produzione di riso e pomodori, ma ci sono anche colture complementari di ortaggi come cipolle, peperoni, cavoli e melanzane, destinate soprattutto all’uso familiare e alla vendita informale su piccola scala. Questo gruppo di coltivatori per ora è l’unico, nel villaggio, a non dipendere dai crediti agricoli concessi dalla banca. Ma altri agricoltori sono intenzionati a fare altrettanto.
L’impegno dei migranti per l’agricoltura biologica è riscontrabile anche in altre località del Senegal e l’Organizzazione internazionale del lavoro li reputa investitori privilegiati per il potenziamento di questo settore agricolo. Se si vuole difendere e promuovere il ruolo dei piccoli produttori, il sistema di produzione biologico sembra essere la strada giusta. 
Per approfondimenti:
www.guedechantier.com Comune di Guédé Chantier
www.fenab.org Federazione senegalese per l’agricoltura biologica
Nota 1: tutti i nomi sono stati modificati per proteggere l’anonimato delle persone coinvolte.

Articolo tratto da Terra Nuova Luglio-Agosto 2016

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