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Il bosco dai mille usi

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In tutta Italia si stanno diffondendo le food forest, dalle campagne alle città. Angoli di permacultura in cui trovare cibo, spazi di partecipazione attiva e un’infinità di altre risorse.
La food forest, come il termine inglese lascia intendere, è un bosco che nutre, produce frutti, fiori, foglie e radici buone da mangiare. Ma in realtà le risorse offerte non si limitano al cibo, la foresta offre anche legna, ombra per ripararsi, ossigeno, erbe curative, rifugio per gli animali, spazi nel verde adatti a diversi scopi, tra cui, non ultimo, quello di rilassarsi, giocare, svagarsi e contemplare la natura.
Si tratta di una pratica agricola alternativa sempre più diffusa in molte regioni italiane, dal Trentino Alto Adige alla Sicilia, in svariati contesti, sia privati che pubblici. All’inizio sono necessarie alcune conoscenze agronomiche e tanta buona volontà, ma una volta che il sistema ha preso avvio, la natura si fa carico di tutto il resto. Nonostante l’esotismo del termine, i principi alla base delle food forest rimandano all’epoca dei nostri nonni, un’epoca in cui non c’erano le palestre, i supermercati, le farmacie, e giostre e i giardini pubblici.
Il bosco e i campi erano i luoghi in cui si zappava, si coltivava, si raccoglievano i frutti della terra e se ne carpivano i segreti. Le erbe medicinali, le vitamine, le pietanze prelibate quali funghi, asparagi, tartufi, così come la legna per scaldarsi e il materiale per costruire erano beni che la natura metteva a disposizione di tutti.
Oggi non dobbiamo tornare indietro, ma riscoprire l’importanza dei luoghi, renderli accessibili e fecondi, migliorare la nostra qualità della vita, anche per affrontare la crisi delle risorse e la perdita di senso della vita urbana. Questo ritorno a un bosco davvero funzionale si basa sulla permacultura, un metodo di progettazione degli spazi verdi in grado di garantire agli uomini una maggiore resilienza, ovvero la capacità di adattarsi a cambiamenti sempre più veloci. E un ruolo importante viene giocato dalla biodiversità, presupposto fondamentale per salvaguardare la vita delle generazioni future.
Di chi è quel campo abbandonato?
Da dove viene tutta quest’infatuazione per il concetto di food forest?
Si tratta dell’ultima trovata ecologista? E poi, cosa ci sarà di tanto particolare in quel campo pieno di arbusti, cespugli, rampicanti? Spinti dalla curiosità e dal bisogno di soppesare il vero valore delle food forest, abbiamo approfittato di un’iniziativa nata nel comune di Pietrasanta (Lu), in Versilia, e abbiamo monitorato le varie fasi di questo progetto.
L’idea è nata su iniziativa di alcuni semplici cittadini della zona riunitisi attorno all’associazione Luogo comune, il cui interesse è rivolto alla creazione di una comunità, alla partecipazione democratica e alla corretta gestione dei beni pubblici.
Il territorio molto antropizzato, gli spazi verdi divisi tra i giardini dei villeggianti, i centri storici e le spiagge a pochi chilometri dai castagneti di montagna hanno reso difficile trovare un terreno idoneo per una food forest. Ma dopo molte ricerche, è stato scoperto un pezzo di terra tra il fosso, la scuola e le palazzine popolari a Marina di Pietrasanta (Lu): un angolo di verde un po’ dimenticato in mezzo ai rovi e al degrado e che, per il Comune, rappresentava solo un costo di manutenzione. E così è nata l’idea di valorizzarlo e renderlo accessibile a tutti. «Abbiamo fatto un censimento del terreno, per individuarne la tipologia e le specie adatte» racconta Stefania Brandinelli, personalità di rilievo all’interno di questo progetto dalle evidenti sfumature sociali. «Per la piantumazione sono stati acquistate piante antiche già conosciute in Versilia come meli, peri, susini e pruni selvatici antichi e ancora gelsi, giuggioli, cornioli e sorbi».
Una volta trovato il terreno, lo scorso febbraio si è tenuto un seminario con Stefano Soldati, fondatore dell’Accademia di Permacultura e già noto al nostro pubblico per aver creato in Italia la prima casa in balle di paglia in autocostruzione. Questo incontro ha rappresentato una fase importante del progetto, già molto articolato e di lunga gestazione. In questa occasione ci siamo riuniti in uno scantinato delle case popolari davanti al terreno, messo a disposizione dagli abitanti del condominio. Eravamo una trentina di giovani e non, desiderosi di sporcarsi le mani e conoscere i segreti della natura e della progettazione in permacultura.
Ma il momento più rappresentativo è stato domenica 8 febbraio, quando decine di famiglie si sono ritrovate con zappa alla mano per interrare le piante con le radici e condividere un po’ di cibo e speranze per il futuro. A distanza di qualche mese, l’angolo di verde sperduto a Marina di Pietrasanta è effettivamente diventato un luogo di ritrovo, in cui sono stati seminati ortaggi e costruite capanne di salice intrecciato. «L’obiettivo è che diventi un luogo di tutti» spiega Stefania «per i bambini del quartiere, ma anche per le famiglie. Un luogo dove ritrovarsi la domenica o durante la settimana per dar vita ad altri progetti, come gli orti sociali, o semplicemente per contemplare la natura che cresce. In effetti la food forest è progettata, come tutta la permacultura, per crescere in modo autonomo, riducendo al minimo l’intervento dell’uomo».
Come racconta Stefania, all’inizio la gente del quartiere sembrava scettica. «Ma che ci fa tutta questa gente di città in mezzo a un campo spelacchiato?» chiedeva «Chi vi manda? Perché lo fate voi e non il comune?». Poi, piano piano, si sono aggregate sempre più persone, spinte dalla curiosità. Persone disposte a rimboccarsi le maniche, prima ancora di pretendere l’intervento delle amministrazioni su un territorio che alla fine è e rimane pubblico.
La domanda più bella e sincera, però, è stata questa: «E se poi qualcuno viene e ruba la frutta che cresce sugli alberi?». «Ecco allora avremmo proprio centrato l’obiettivo» ha risposto Stefano Soldati. «Ben venga qualcuno che ne approfitti. Noi le piante le mettiamo proprio perché qualcuno, chiunque esso sia, poi ne mangi i frutti!».
Un altro tipo di verde
Avete mai visto un prato creato dalla natura? Avete contato le specie di fiori e di piante che vi crescono? «Nella costruzione di una food forest» spiega Stefano «seguiamo i principi della permacultura, cerchiamo cioè di ricreare quello che da sempre fa la natura, perché la natura non crea giardini all’inglese, né campi da golf».
Se osserviamo con attenzione il comportamento della natura ci accorgeremo che un bosco non necessita di irrigazione, concimazione, aratura, tanto meno di erbicidi e pesticidi di alcun tipo. La biodiversità e i cicli naturali mantengono la fertilità del terreno e la salute delle piante; creare una food forest significa quindi imitare questi processi. In questo modo si ottengono dei sistemi di produzione di cibo che richiedono molte meno risorse rispetto all’agricoltura convenzionale, a tutto vantaggio della fertilità del suolo, della conservazione degli habitat naturali e del senso estetico. In effetti, i campi arati a perdita d’occhio, senza il profilo di un albero, sono ormai diventati un paesaggio monotono.
Ma non dobbiamo trascurare un altro aspetto importante: il lato prettamente umano. Quando un gruppo di persone unisce le forze per ricostruire quello che la natura fa spontaneamente si crea un’esperienza davvero rivoluzionaria. Tanto più se questo avviene in contesti urbani, laddove la mano dell’uomo è intervenuta per dividere per sempre natura e cultura, produttori e consumatori, contadini e uomini d’ufficio. Ciò che mostrano queste esperienze è la voglia di partecipazione, di riconquista degli spazi pubblici, in nome di un nuovo modello di bene comune. Si tratta di tornare a essere cittadini attivi, riabilitare con coscienza i nostri territori.
Pensateci bene: di chi sono i parchi pubblici, i fossi, le strade di campagna, tutti quegli avanzi di terra che le amministrazioni non riescono più a gestire?
E ancora: a chi appartengono gli alberi, i frutti che cadono, i fiori e le erbe spontanee?
Sono un patrimonio comune, e proprio per questo potremmo cominciare a renderli un po’ più funzionali alle nostre esigenze e a quelle di chi, anche solo per caso, un giorno passerà da queste parti. Perché la terra è di tutti e la natura è generosa, basta solo lasciarla fare.

Articolo tratto dal mensile Terra Nuova

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