Attraverso i racconti di un contadino “Il libro di Pietro” ci accompagna nella storia del mondo rurale del secolo. In occasione del 25 aprile un passo dedicato al fascismo e alla guerra.
Il fascismo e la guerra
Secondo Pietro, Groppa Secca aveva due meriti solamente: era scrupoloso quando divideva i guadagni alla fine dell’anno, e non era fascista. Ma la sua riluttanza a prendere la tessera non derivava dalle sue convinzioni ideologiche. Un bel giorno i fascisti di Mercatale ebbero bisogno di una stanza dove fare riunioni e costrinsero Groppa Secca a darne una della sua proprietà davanti alla Piazza. Avaro com’era, non gli andava di concedere questa stanza, allora era automaticamente contrario a quelli che ne avevano preso possesso. Infatti, non tutti i padroni erano d’accordo con i fascisti, per una ragione o per un’altra, ma, come Groppa Secca, stavano zitti perché approvavano certi aspetti del fascismo: soprattutto perché teneva i contadini e gli operai in stato di sottomissione e vietava la formazione di sindacati.
Pietro ha già descritto le divise dei ‘Balilla’ e delle ‘Piccole Italiane’ e si deduce che fin dall’inizio il contenuto teorico del fascismo contasse meno agli occhi del popolo di Mercatale delle divise, delle marce e delle canzoni. Nelle pagine seguenti ci rendiamo conto di quanto il regime fascista cercò di impadronirsi dei cervelli dei giovani italiani quasi fin dalla nascita. Forse il cinismo e il senso dell’umorismo del toscano lo salvarono dagli eccessi più sgradevoli di questa ideologia.
Avanti d’andare a scuola i bambini diventavano Figli o Figlie della Lupa. Una volta che cominciavano a andare a scuola i maschi diventavano Balilla. Ci spiegarono che Balilla era il soprannome di un ragazzino genovese del Settecento. Diè di piglio a un sasso e lo scagliò sugli austriaci e questo iniziò una ribellione che riuscì a liberare la città dagli invasori. Dicevano: “Dovete essere tutti coraggiosi come quel ragazzino e buttare anche sassi se l’occasione lo richiede”.
Quanti sassi abbiamo buttato durante l’intervallo! Ma nessuno diceva che eravamo eroi, dicevano invece: “Oh scellerati, se rompete una finestra pagherete le conseguenze!”. Le femmine si chiamavano Piccole Italiane e avevano le divise che vi ho già descritto. Tutti portavano la divisa, ma c’era chi aveva le scarpe e chi aveva gli zoccoli; quelli con gli zoccoli si sentivano inferiori. Dopo la scuola diventavano Giovani fascisti. Da quel momento portavano la giubba e i pantaloni lunghi, tutto in grigio verde, avevano sempre la camicia nera ma ora avevano anche la cravatta nera e poi le scarpe militari e le ghette. Conosco uno che diventò un Giovane Fascista solo perché era stufo di andare in giro con gli zoccoli.
Poi a diciotto anni entravano nella categoria premilitare. Ogni sabato sera si radunavano alla Casa del fascio e facevano teoria militare. Cantavano Giovinezza e gridavano “Viva il Duce” facendo il saluto fascista. Più forte gridavano, più importanti credevano di essere. Poi il Segretario diceva: “Fascisti! A noi! Eia, eia!” e loro rispondevano: “Alalà!”.Sembra una buffonata, ma capitava proprio così, li vedevo quando c’erano le feste.
Quando i Giovani Fascisti avevano finito il corso credevano di essere soldati davvero. A loro furono dati dei moschetti finti di legno e le giberne, e marciavano su e giù per la strada e cantavano. Da che mondo è mondo l’esercito italiano ha sempre insegnato a marciare e cantare, è solo quando deve fare la guerra che ha dei mancamenti.
Ogni tanto si fermavano e facevano un po’ di esercizi con i moschetti finti. Poi, quando c’era qualche festa, qualche ricorrenza, per esempio il 28 ottobre o il 4 novembre, tutti i ragazzi andavano alla stanza del fascio per mettere le divise e facevano un raduno in piazza. Poi formavano un corteo: avanti andavano i caporioni, poi i Giovani Fascisti con i loro moschetti, poi i Balilla e le Piccole Italiane, poi i Figli e le Figlie della Lupa, e poi il popolo. Il corteo andava per le strade di Mercatale fino alla Torre. Quando tornavano alla piazza c’era sempre qualcuno che faceva un discorso. Diceva che bisognava essere forti e sempre pronti contro il Nemico e che il Duce vedeva Nemici dappertutto.
Poi diceva che bisognava fare molti figli, così c’erano più soldati per combattere il Nemico, anche se non era chiaro all’inizio di quale Nemico si trattasse. Diceva tutte le belle cose che il regime aveva fatto per i suoi cittadini, e quali leggi erano state approvate di recente. La gente stava lì a ascoltare; erano tutti un po’ diffidenti ma non sapevano altre versioni dei fatti. Quei pochi giornali che esistevano erano tutti nelle mani dei fascisti e anche la radio era piena di propaganda, allora la gente non sapeva cosa pensare, perciò i contadini ascoltavano e stavano zitti. Alla fine della riunione c’erano le solite parole d’ordine: “Viva il Duce!” e “Fascisti! A noi! Eia, Eia!”. E tutti i ragazzi gridavano: “Alalà!”. E così la festa era finita.
Come vi ho detto, non partecipai a queste associazioni, anche perché non avevo i soldi per comprare la divisa. Ma mi divertivo a andare alle riunioni quando c’era la festa, mi piacevano le divise e tutte quelle marce e quelle canzoni, dopo tutto passavo quasi tutta la giornata solo nel bosco e lì in piazza c’era un po’ di allegria e di movimento. Ma quando parlavano della guerra e del Nemico, mio padre scuoteva la testa e aveva l’aria triste. In teoria era fascista anche lui, perché aveva la tessera. Ma se non la prendeva i fascisti avrebbero mandato una squadraccia per bastonarlo. È successo a tanti, al Tinacci di Rendola, per esempio: gli dettero una bella manganellata, e poi lo tennero quattro anni senza libretto di lavoro. Ma la tessera non la prese lo stesso, aveva un bel coraggio quello lì!
Tanti altri prendevano la tessera per paura, per stare tranquilli, e così fece mio padre. Ma ci credeva poco e non voleva assolutamente sentire parlare di guerre. Durante la prima guerra mondiale lui e suo fratello erano stati nelle trincee e allora sapeva che la guerra porta solo la sofferenza e la morte.
Il Segretario del Partito era un proprietario terriero. Aveva solo due poderi, eppure questo gli permetteva di fare una vita agiata. Era un uomo un po’ buffo, quando era vestito in divisa assomigliava a Mussolini. Quando doveva ricevere un pezzo grosso come il Federale, il nostro Segretario metteva la camicia nera, la giubba col cinturone, i pantaloni alla zuava, gli stivaloni neri e il cappello di tipo militare, era impettito come un mugellese. Ma era uno stupido, tutti ridevano di lui dietro le sue spalle.
Una volta mi trovai nella stanza del fascio e uno gli domandò una cosa e lui gli disse: “Tu fai certi discorsi che non li becca nemmeno i loci (nota1)!”. Dopodichè tutti dicevano questa frase quando qualcuno faceva un discorso sbagliato.
Nota1: (tosc.) Ocio è una forma dialettale di oca. In questo caso l’articolo «l’» viene preso come parte della parola, che diventa locio.
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