L’opinione critica del pioniere francese del bio Claude Aubert, che però avverte: più che deplorare l’industrializzazione del bio, meglio impegnarsi per andare oltre la certificazione biologica europea.
Claude Aubert è una delle persone che più hanno contribuito allo sviluppo del biologico, non soltanto in Francia, ma nel mondo intero. Un testimone privilegiato di sessant’anni di storia del biologico, che ancora oggi, a 85 anni, continua a essere un punto di riferimento.
Segretario generale di Nature et Progrès, nel 1972 organizzò a Versailles il congresso internazionale che diede vita all’Ifoam (International federation of organic agriculture movements). Nel 1979 ha fondato la cooperativa Terre Vivante che pubblica una rivista, varie collane di libri e svolge altre importanti funzioni per la diffusione della cultura ecologica.
Secondo Aubert bisogna combattere le deviazioni del bio industriale perché non prende in considerazione aspetti essenziali dell’agricoltura biologica, come la biodiversità, l’emissione di gas serra e i criteri sociali. Ma rifiutare, come fanno certuni, la commercializzazione dei prodotti bio da parte delle grande distribuzione non fa che limitare gli sbocchi per questi prodotti, e dunque il numero di agricoltori che scelgono questo modo di produzione.
Sta ai consumatori scegliere un’altra concezione del bio optando per le diverse forme di vendita diretta, approvvigionandosi nei negozi specializzati e dando la preferenza, quando possibile, alla filiera corta.
Riportiamo una sua intervista, tratta da France Culture, rilasciata in occasione del Congresso mondiale dell’agricoltura biologica tenutosi a Rennes lo scorso settembre.
Quali sono i capisaldi dell’agricoltura biologica oggi e qual è il suo vero significato?
Oggi, i disciplinari definiscono il biologico in maniera negativa: niente pesticidi e niente fertilizzanti chimici. Ma i pionieri che hanno iniziato a riflettere sul biologico nel periodo fra le due guerre ci hanno trasmesso l’idea dell’importanza del suolo. Ogni agricoltura degna di questo nome dovrebbe partire dalla conservazione della fertilità.
Del resto, sono questi pionieri che hanno inventato il compostaggio.
Oggi, questa base resta fondamentale: dal suolo dipende la salute delle piante, degli uomini e degli animali.
Per anni, lei si è dedicato a promuovere la conversione al biologico. Come eravate percepiti all’epoca dall’ambiente agricolo e dagli organismi di ricerca agronomica?
Come degli sprovveduti, degli idioti, delle persone che volevano ritornare all’agricoltura del secolo scorso. Veramente, senza nessuna sfumatura. Non era neanche il caso di discuterne, in particolare presso l’Inra (Institut national de la recherche agronomique). Mi ricordo che dopo il 1968 venivo invitato nelle aule magne dagli studenti di agraria, che apprezzavano molto tutto quello che era alternativo, dato che noi contestavamo il modello agricolo dominante. Non c’era mai un professore in sala. Uno o due volte qualcuno di loro è venuto a dirmi: «Allora signor Aubert, abbiamo marinato i corsi di agraria?». Oppure: «Avete deciso quale parte della popolazione francese morirà di fame quando il vostro sistema sarà adottato?». Eravamo a questi livelli.
Quando l’Inra, molto più tardi, iniziò a interessarsi e a studiare l’agricoltura biologica, ho chiesto loro perché invece di criticare non erano venuti a vedere sul campo quello che accadeva e perché non avessero fatto delle prove comparative.
Pensavano che il biologico fosse una moda e che sarebbe passata in fretta. Fortunatamente non è passata, ma l’Inra ci ha messo molto tempo a interessarsene seriamente. Il biologico ha iniziato a svilupparsi fortemente negli anni ’90, trent’anni dopo gli esordi.
Oggi però il biologico è in pieno sviluppo, sia a livello di consumi, che come produzione. Come la vede?
Ci sono due fenomeni paralleli: da un lato si sono accumulati i dati scientifici che provano l’importanza dell’agricoltura biologica per la salute, per l’ambiente e per il mantenimento della fertilità del suolo. Dall’altro, anche le prove degli effetti catastrofici dell’agricoltura convenzionale sono sempre più massicce. È la somma di queste due accumulazioni che ha permesso al biologico di svilupparsi e di essere preso seriamente, anche se è ancora ben lontano dall’essere dominante. E poi ci sono i consumatori che accettano di pagare più caro i prodotti provenienti da questa agricoltura più rispettosa del suolo. Sono loro che trainano lo sviluppo del biologico.
Nel momento in cui la Francia accoglie il XX Congresso mondiale del biologico, pensa che la vostra battaglia sia stata vinta?
Siamo riusciti a dimostrare l’importanza di questa agricoltura. Ma niente è acquisito sul piano del consumo e della produzione, poiché i prodotti bio, anche se si sviluppano fortemente, rappresentano sempre una piccola parte dei prodotti consumati. E poi il biologico resta un affare da paesi ricchi, anche se i paesi del Sud lo praticano sempre di più, ma non abbastanza.
In breve, l’agricoltura industriale resta dominante.
Quali sono le sfide più importanti che deve affrontare oggi l’agricoltura biologica?
In termini generali, l’agricoltura è a una svolta fondamentale della sua storia: in certi settori di quella convenzionale, le rese non solo non aumentano più ma cominciano a diminuire. E poi gli effetti del riscaldamento climatico sono manifesti. In breve, è necessario fare delle scelte. Ma la situazione è complicata. In particolare perché una parte dell’agricoltura biologica è stata sviata, essa è rimasta biologica nel disciplinare, ma si è industrializzata nei suoi principi, dimenticando quello che costituiva la base dell’agricoltura biologica: una certa rotazione delle colture, della biodiversità nei campi, delle aziende agricole con policoltura e bestiame.
Oggi, una parte degli agricoltori biologici ha adottato degli schemi convenzionali come la monocoltura. Per questo motivo viene bistrattata da altri agricoltori che stimano che sia meglio, per esempio, fare un’Agricoltura di conservazione del suolo (Acs), e che sia questo il futuro e non il biologico. In poche parole, io penso che oggi il peggior nemico del biologico sia il biologico industriale.
Un’agricoltura certamente biologica, ma non sostenibile.
E quindi come bisognerebbe agire? E con quali strumenti?
Credo che bisognerebbe migliorare i disciplinari dell’agricoltura biologica. Oggi, per esempio, non comprendono la biodiversità delle colture. All’epoca, questo non era necessario perché tutti gli agricoltori del biologico avevano fattorie con policoltura e bestiame, cosa che determinava naturalmente una biodiversità. Ma quando questo biologico ha iniziato a specializzarsi, tutto ciò è sparito. Mi rendo conto che cambiare questo disciplinare oggi per 27 paesi non è facile.
L’altro problema importante secondo me è che si è finito per separare completamente l’agricoltura dal suo obiettivo primario che è l’alimentazione. Diversi scenari hanno dimostrato che l’agricoltura biologica può assolutamente nutrire l’Europa, a una condizione: dimezzare il nostro consumo di prodotti animali, e in particolare di carne.
Fino a quando non si comprenderà che bisogna cambiare le nostre abitudini alimentari smettendo di mangiare carne ogni giorno, non si potrà mai generalizzare l’agricoltura biologica. Attenzione però, non parlo né di vegetarianesimo né di veganesimo; per me consumare saltuariamente carne di manzo, per esempio, è molto importante. Abbiamo preso delle abitudini alimentari disconnesse dalle possibilità del nostro suolo. L’informazione comincia a farsi strada, ma la maggioranza purtroppo non si è ancora convinta.
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Articolo tratto dal mensile Febbraio 2022
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