Forte, diffuso e organizzato: così John Echohawk definisce oggi il movimento per la difesa delle tradizioni e della cultura dei nativi americani. Avvocato di origini Pawnee, Echohawk dirige l’ente nazionale che negli Stati Uniti tutela i diritti degli indiani. Lo abbiamo intervistato.
Battaglie ambientali per preservare quel che resta delle loro terre, rivendicazione di diritti calpestati per secoli e tuttora da riaffermare ogni giorno, voglia di un riscatto sociale che sia anche recupero della cultura nativa, delle tradizioni e della spiritualità che ha caratterizzato così profondamente la loro storia: è ciò che segna un vero e proprio risveglio dello spirito Pellerossa negli Stati Uniti e in Canada, fenomeno di cui si osserva da diversi anni un crescendo di intensità.
Con 574 tribù riconosciute a livello federale, quasi 23 milioni di ettari di terre indiane in 48 stati americani e altri 19 milioni in Alaska, i nativi americani rappresentano oggi negli Stati Uniti l’1,7% della popolazione, contando anche i matrimoni misti, per un totale di oltre 5 milioni di persone.
«C’è un vero e proprio movimento organico che combatte per recuperare, ripristinare e rivalorizzare le nostre tradizioni, la nostra cultura e anche la nostra religione» spiega John Echohawk, avvocato, appartenente alla nazione Pawnee dell’Oklahoma e direttore esecutivo del Native American Rights Fund, l’ente nazionale per la difesa dei diritti degli indiani, che fornisce loro tutela e rappresentanza legale. «Ci siamo occupati di alcune delle più importanti cause per i diritti dei nativi negli Stati Uniti degli ultimi cinquant’anni, battaglie che hanno alimentato e rafforzato l’attuale movimento per la sovranità tribale» spiega Echohawk.
La lotta per la tutela delle terre
«I problemi maggiori per i nativi americani oggi si concentrano sulla necessità continua di ribadire e difendere i diritti di sovranità e autogoverno che hanno sulle loro terre, devono tutelarle dai tentativi di espropriazione e inquinamento, così come le risorse naturali che in quelle terre vi sono» prosegue Echohawk. «Per non parlare poi, date le condizioni di vita e ciò che hanno subìto negli ultimi secoli, della fatica immane per recuperare e mantenere tradizioni, cultura e religione. I trattati che sono stati e che vengono stipulati hanno sempre come controparte le tribù da una parte, che hanno appunto la loro sovranità, e il governo federale o gli Stati dall’altra e questi ultimi non hanno giurisdizione sulle tribù a meno che ciò non sia previsto da qualche trattato o da un atto del Congresso. I 42 milioni di ettari complessivi di terre conteggiati tra Stati Uniti e Alaska appartengono alle tribù o individualmente a singoli indiani e rappresentano da sempre per loro un bene di incommensurabile valore da tutelare».
Le riserve
«Un numero significativo di indiani tende a lasciare le riserve per ragioni economiche, per avere più possibilità di trovare lavoro e per cercare condizioni di vita migliori, pur mantenendo stretti legami con la loro tribù d’appartenenza e i loro familiari. È anche vero però che, da quando la situazione di alcune riserve è migliorata, molti vi hanno anche fatto ritorno» prosegue ancora l’avvocato Echohawk. «Tra i problemi maggiori permane senza dubbio quello della povertà e delle condizioni di salute spesso problematiche, dovute al fatto che il governo federale non ha mai finanziato adeguatamente i servizi sanitari per i nativi, malgrado ciò fosse previsto dai trattati. Gli indiani rappresentano tuttora i più poveri tra i poveri negli Stati Uniti e laddove c’è una qualche prosperità è assolutamente disomogenea. Alcune tribù hanno una qualità della vita migliore di altre, ma in generale è proprio sulla qualità della vita che c’è ancora tanto lavoro da fare».
Recupero di cultura e tradizioni
«I nativi americani hanno profuso grandi sforzi, e stanno continuando a farlo nel tentativo di riappropriarsi, rivalorizzandola, della loro cultura originaria, compresa la profonda spiritualità che li ha sempre caratterizzati» prosegue Echohawk. «E alcuni provvedimenti adottati hanno costituito un segnale positivo. Per esempio, nel 1978 il Congresso americano ha approvato l’American Indian Religious Freedom Act, che ha riconosciuto come pienamente esistenti le religioni indiane e ne ha disposto una sorta di ricognizione per adottare forme di tutela. Nel 1990, sempre il Congresso ha approvato anche il Native American Graves Protection and Repatriation Act, dove si disponeva l’istituzione di musei con fondi federali per restituire, attraverso di essi, alle tribù dei nativi sia resti umani che beni di sepoltura, oltre a oggetti utilizzati per le pratiche religiose».
Il movimento dei nativi americani per il recupero della cultura tribale oggi negli Stati Uniti appare, come spiega Echohwak, «forte, diffuso e organizzato»; ha preso vitalità negli anni Sessanta, nell’ambito delle lotte per i diritti civili, e «ha indotto il governo federale a modificare la propria politica verso gli indiani negli anni Settanta, riconoscendo margini maggiori di autodeterminazione. E oggi è più che mai attivo e determinato».
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IL LIBRO
Arricchito da quasi un centinaio di foto d’epoca, in gran parte mai pubblicate prima, Il Grande Spirito è un’immersione a 360 gradi nella filosofia di vita e nella spiritualità dei nativi americani. Un modo di essere contraddistinto da una profonda comunione con la Natura, carattere comune a tutti i nativi americani e in particolare agli Indiani delle Grandi Pianure, a cui è dedicato il libro.
L’opera, curata da due studiosi vicini anche per interesse personale alla cultura dei nativi, raccoglie citazioni, discorsi e cerimoniali provenienti da fonti dirette dai quali traspare la dignità d’animo, la nobiltà di sentimento, il rigore dell’azione e il senso profondo di religiosità che permeava la vita dei Pellerossa.
I diritti di questo libro, pubblicato in diverse lingue, verranno donati allo Smithsonian’s Museum of the American Indians, la più importante istituzione degli Stati Uniti che si occupa di preservare e divulgare la cultura delle popolazioni indigene delle Americhe.
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