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Il seme: sorgente di vita

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Il seme è la fonte della vita. L’articolo di Vandana Shiva, autrice del libro Agroecologia e crisi climatica.
Conosciuto come bija in sanscrito e nella lingua hindi, shido in giapponese, zhangzi in cinese, seed in inglese, semilla in spagnolo, sémence in francese, saat in tedesco, il seme è la fonte della vita e il primo anello nella catena alimentare. È la base di tutte le forme di vita nell’universo; esso racchiude millenni di evoluzione e migliaia di anni di selezione contadina, portando con sé la cultura della libera conservazione e condivisione. È l’espressione dell’intelligenza della Terra e delle comunità rurali nel corso dei secoli. E si rinnova nel tempo, diventando una pianta da cui si formerà un nuovo seme.
Un seme è un organismo vivente, anche se ad un primo sguardo può sembrare inerte, o persino morto. Per rimanere vivo, l’embrione deve avere accesso a nutrimento e ossigeno. Se rimane senza cibo o subisce danni fisici, compresi gli attacchi di insetti o funghi, finisce per morire.
La vita e il vigore dei semi possono essere ridotti o potenziati a seconda di come vengono trattati: possono essere danneggiati prima o durante la raccolta, il trasporto o lo stoccaggio, e la loro longevità può venire drasticamente compromessa se non vengono conservati in buone condizioni.
La maggior parte della diversità agricola mondiale è stata creata dall’umanità in più di 10 mila anni, ma possiamo perderne molta in una sola generazione.
Vale la pena ripeterlo: fino all’inizio del XX secolo, la nostra alimentazione dipendeva da qualcosa come 10 mila specie vegetali differenti, ognuna a sua volta rappresentata da migliaia di varietà coltivate. Oggi, invece, più del 90% dell’alimentazione mondiale è assicurata solo da trenta piante, mentre il 75% delle calorie consumate dall’umanità è fornito da quattro specie: frumento, riso, mais e soia. I diversi ecotipi che rafforzavano gli ecosistemi locali in passato oggi sono stati sostituiti da una manciata di varietà «super ibride» della Rivoluzione Verde, coltivate attualmente in un regime di monocoltura in tutto il mondo.
Il seme è l’incarnazione delle idee e della conoscenza, della cultura e dell’eredità di un popolo. È il concentrato della sua filosofia, delle sue tradizioni, dei suoi saperi. Quindi rappresenta la saggezza di anni di ricerca dei contadini, che hanno meticolosamente lavorato al processo, in perfetto coordinamento e armonia con la natura, prendendo in considerazione il clima e i parametri idrogeologici della zona.
La biodiversità dei semi perciò va di pari passo con la biodiversità dei sistemi cognitivi e con quella dei paradigmi del miglioramento genetico. Per più di 10 mila anni gli agricoltori indiani hanno usato il loro talento e la conoscenza indigena per domesticare e sviluppare migliaia di specie, tra cui 200 mila varietà di riso, 1500 di frumento, 1500 di banana e mango, centinaia di specie di legumi e oleaginose, vari tipi di miglio e pseudo cereali, ortaggi e spezie di ogni genere.
La genialità della selezione varietale fu bruscamente interrotta quando, negli anni Sessanta, l’industria agro-chimica impose la Rivoluzione Verde.
Come è già successo in India durante il periodo coloniale, la nostra intelligenza nel miglioramento genetico e nell’agricoltura è stata di nuovo negata, i nostri semi sono stati definiti «primitivi» ed eliminati. Si sono imposti l’«intelligenza» meccanica del miglioramento industriale per uniformare le colture e facilitare l’uso di input esterni. Invece di continuare a creare diverse varietà di specie diverse, la nostra agricoltura e la nostra dieta sono state ridotte a riso e frumento.
I nostri semi nativi sono stati migliorati per la resilienza, quelli industriali sono invece stati migliorati per le monocolture. Essi richiedono grandi quantità di acqua e sono vulnerabili nei periodi di siccità. Per affrontare il cambiamento climatico e la scarsità idrica dobbiamo invece tornare a coltivare le nostre varietà antiche, poiché hanno bisogno di meno acqua e aumentano la capacità di ritenzione idrica dei suoli, migliorando nel contempo la nostra sicurezza alimentare e nutrizionale.
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Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Dicembre 2019

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IL LIBRO

La crisi ambientale, sociale ed economica che viviamo oggi ha un principale colpevole: l’attuale modello agroalimentare, che espone l’intero Pianeta ai pericoli di una nuova estinzione di massa, depredando le risorse naturali, come l’acqua e la fertilità dei suoli. In questo nuovo libro, Vandana Shiva e Andre Leu presentano i risultati delle ultime ricerche scientifiche, dimostrando che un altro modello agricolo non solo è possibile, ma anche necessario, per combattere la fame, frenare i cambiamenti climatici e arginare la devastazione del Pianeta.

La questione ha anche una valenza di ordine sociale e politico. L’agricoltura industriale, basata su monocolture, pesticidi e biotecnologie, rende sempre più dipendenti e indebitati gli agricoltori consegnando i saperi, i mezzi di produzione e gli stessi semi nelle mani di poche multinazionali, con una concentrazione di potere senza precedenti nella storia.
In un testo destinato a fare storia, gli autori smontano un modello produttivo a lungo celebrato come efficiente, ma che ad uno sguardo più attento si mostra del tutto incapace ad affrontare le sfide della crisi climatica, la fame nel Sud del mondo e la malnutrizione cronica nei paesi cosiddetti sviluppati. La soluzione è nelle pratiche agricole sostenibili supportate da nuove conoscenze agronomiche in grado di valorizzare la complessità del vivente, garantire cibo sano per tutti e una nuova democrazia per il futuro del Pianeta.
 

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