Irene continua a impastare a mano. Anche se deve infornare più di sessanta chili di pane al giorno, preferisce lavorare a contatto diretto con la materia prima, senza sciupare la debole maglia glutinica delle farine da grani antichi. Usa solo lievito madre e farine macinate a pietra, di provenienza regionale. Gli impasti sono tenuti ben idratati, quindi la fatica è limitata, ma l’impegno, se si vuole sfamare una cinquantina di famiglie, è comunque enorme.
I panettieri convertiti alla pasta madre e alle farine cosiddette «deboli», ormai non sono una novità. Negli ultimi anni, in tutta la Penisola si sono affacciati sulla scena giovani fornai che hanno sposato questo approccio al cibo ribelle a partire proprio dall’alimento cardine della nostra alimentazione. Cuociono nei forni a legna, usano farine biologiche di varietà antiche, fanno le fermentazioni acidolattiche escludendo il lievito di birra e tutti i possibili miglioratori che si utilizzano comunemente per il pane.
La particolarità di Da Madre Ignota, che si trova in via Cesare Abba, nel quartiere Savena di Bologna, è la matrice sociale del progetto. Si tratta infatti di un forno di comunità, che un giorno alla settimana apre alla cittadinanza per consentire ad ognuno di portare la sua pagnotta e cuocerla. Per riassaporare insieme l’arte di autoprodurre il proprio cibo, mediante corsi e percorsi comuni. Un modo per riaccendere la condivisione attorno all’elemento sacrale del pane, l’alimento che unisce e che ancora oggi costituisce il pilastro base dell’alimentazione, perlomeno nel mondo Mediterraneo.
Pane, avanguardie e territorio
Il negozio vende al dettaglio, su ordinazione, alle realtà autogestite sorte attorno al capoluogo emiliano: c’è Camilla, l’Emporio di Comunità, ci sono i mercatini locali, i Gruppi di acquisto solidale e le esperienze di Csa (Comunità di supporto all’agricoltura).
Quello di Irene è un percorso dall’urbanistica al pane, per poi tornare al territorio. «Vengo da studi di urbanistica, pianificazione e progettazione del territorio e del paesaggio» racconta. «È stato un percorso che mi ha dato una forma mentis che mi ha influenzato molto, grazie all’approccio progettuale territorialista che è molto attento all’economia di prossimità, con progetti incentrati alla valorizzazione dei luoghi».
Irene ha iniziato presto ad avere le idee chiare, a suon di scelte consapevoli. Già all’età di vent’anni ha iniziato a fare la spesa ai mercati contadini, si è dedicata alle autoproduzioni in casa, alla preparazione di pane, fermentati e marmellate. Durante gli studi si è poi avvicinata alla permacultura, facendo anche delle esperienze negli ecovillaggi. «Dopo che mi sono laureata mi sono chiesta cosa volessi fare. Per me era chiaro che volevo occuparmi del rapporto tra città e campagna, di sovranità alimentare, del dialogo tra amministrazioni e contadini. E ho iniziato a capire quanto la cooperazione fosse importante. La materia mi ha sempre appassionato, ma ero stanca di rimanere inchiodata davanti al computer, avevo bisogno di fare altro. Allora mi sono presa un paio d’anni per capire, facendo esperienza in diversi ecovillaggi. Poi ho realizzato che volevo fare il pane. I miei pensavano che scherzassi, poi hanno capito che facevo sul serio. Ho fatto esperienza in bottega da panificatori in toscana e un mese al raduno della Rive (Rete italiana villaggi ecologici) nel 2019, che mi è servito per imparare a gestire i grossi quantitativi. E così, durante il lockdown, ho iniziato a cercare un locale qua a Bologna».
La sua competenza con i progetti le ha permesso di vincere il bando comunale di Acer, riuscendo ad ottenere il permesso di utilizzo dei locali. Certo, le normative anti-Covid in questo momento mettono un po’ i bastoni tra le ruote. «Con le normative igienico sanitarie non posso fare entrare le persone nel laboratorio, ma posso comunque far cuocere il pane». Il segreto, se vogliamo proprio trovarne uno, sembra quello di aver capito meglio di altri l’importanza della cooperazione, in un territorio in cui non mancano le iniziative di autogestione.
All’interno della cooperativa bolognese Camilla, i cui soci partecipano attivamente al servizio di vendita dei prodotti nell’emporio, Irene ha trovato validi aiuti nella progettazione del sito web e nella realizzazione del crowdfunding. La raccolta fondi ha permesso di raccogliere in pochi giorni le donazioni di trecento persone. Irene ha scelto di fare il pane tre giorni alla settimana, applicando un prezzo di 6 euro al chilo al dettaglio. «Non tutti riescono a comprendere il valore, e quindi il prezzo giusto del pane, per questo motivo sono importanti le infornate comunitarie» ci spiega. «È importante che la gente veda come lavoro».
Per starci dentro con i costi, deve produrre 750 kg di pane al mese, insieme a biscotti, crackers, focacce, grissini e tutti i più disparati prodotti da forno.
Gli intenti di Irene sono chiari. «Vorrei ridare a questo alimento la sacralità quotidiana che aveva quando in passato e riprendere l’usanza di trovarsi in un luogo comunitario per infornarlo» scriveva su Idea-Ginger, la piattaforma che l’ha aiutata nella campagna di crowdfunding per acquistare il forno e la canna fumaria, che sono costate circa 15 mila euro. «Ho preso la decisione di fare questa spesa per venire incontro ai condomini del palazzo, perché non volevo creare alcun disagio con i fumi. Per me è importante favorire il dialogo con chi abita vicino al forno».
Cibo ribelle sì, ma proprio per questo, molto rispettoso della comunità che lo accoglie.
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Articolo tratto dalla rubrica Cibo ribelle: i protagonisti
Leggi la rubrica sul mensile Terra Nuova
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