Io imparo da solo
homepage h2
Probabilmente chi rimane spaesato non si è mai fermato a pensare alla mole incredibile di quello che ha imparato, da solo e con pochissimi interventi di insegnamento mirato, un bambino di quattro o cinque anni che non sia mai andato né a scuola né all’asilo: dal movimento al linguaggio, alle norme culturali, al riconoscimento e all’espressione delle proprie emozioni. Non ci sono ragioni pedagogiche né biologiche per pensare che oltre i sei anni non possa continuare a fare quello che ha fatto prima, seguendo i propri tempi e i propri ritmi, in pressoché totale autonomia e apparentemente senza sforzo.
Incluso imparare a leggere e a scrivere: i bimbi unschooler sparsi per il mondo lo dimostrano.
Le informazioni nella vita quotidiana sono indifferenziate, allo stato grezzo: i bambini devono lavorarci su, metabolizzarle, trovare i collegamenti e risolvere le contraddizioni in maniera molto più intensa che nello studio strutturato. Viene richiesto quindi un impegno cognitivo più alto, uno sforzo di sintesi che è alla base di come la conoscenza non solo viene trasmessa ma progredisce, e questo è un allenamento importante. Il tutto senza le pressioni, e le possibili conseguenti resistenze, indotte da un sistema in cui obiettivi e traguardi sono stabiliti da altri.
Ci sono molti studi di psicologia e pedagogia, alcuni recentissimi, a sostegno dell’apprendimento spontaneo. Vorrei ricordare in particolare una scoperta rivoluzionaria, quella dei neuroni specchio. Negli anni ’90 un’équipe di studiosi guidata da Giacomo Rizzolatti ha osservato (nelle scimmie e poi nell’uomo) che il sistema dei neuroni che si attiva solitamente quando si compie un’azione si attiva anche quando si osserva un altro individuo compiere la stessa azione: da qui il nome di «neuroni specchio». Essi producono risposte automatiche e inconsapevoli, che permettono anche ai neonati di essere in grado di riprodurre i movimenti e le espressioni che vedono: così, intorno alle sei settimane di vita, cominciano a sorridere. I neuroni specchio dimostrano che la nostra innata capacità di imparare dal punto di vista della fisiologia cerebrale risiede prima di tutto nell’istinto a imitare, a empatizzare e a integrarci nella società.
Ecco la risposta all’immancabile domanda: «E la socializzazione?». Il modo migliore di favorire l’apprendimento di un bambino è proprio cercare attivamente quante più occasioni possibili di farlo partecipare alla vita sociale. L’istinto a imitare quello che i membri adulti della società fanno garantisce che le aree più importanti della cultura di quello specifico gruppo vengano assimilate dai bambini: se il gruppo usa quotidianamente la parola scritta, i bambini impareranno a leggere e scrivere perché quello che è importante per gli adulti lo diventa anche per loro.
L’affinità più marcata è con le scuole libertarie, in cui l’esperienza dell’apprendimento spontaneo avviene in un contesto collettivo. I risultati degli studenti in termini accademici sono del tutto paragonabili a quelli delle scuole tradizionali, col vantaggio che le traiettorie individuali di ciascun bambino vengono rispettate. L’unschooling tenta però di riportare l’educazione fuori dall’istituzione scolastica e di reinvestire la società della sua funzione educante. È una riflessione che ha sviluppato in profondità il professor Paolo Mottana
Per quel che mi riguarda, un’autoanalisi spietata della mia esperienza nella scuola dell’obbligo, alla luce di quello che mano a mano leggevo a proposito dell’unschooling. La noia, la pressione dei voti, la sedentarietà forzata, i piccoli atti di bullismo subiti da «brava studentessa», il tempo sottratto alle mie passioni per eseguire compiti decisi da altri: il disagio che ho sempre visto come un problema mio ha cominciato a emergere come un problema del sistema, nonostante le buone intenzioni degli insegnanti. Mio marito, che ha attraversato molti ambiti in campo educativo, dall’insegnamento superiore e universitario alla divulgazione tecnico-scientifica, ha riconosciuto che alla luce della sua esperienza quello che ha sempre funzionato meglio è stato l’apprendimento informale e che quindi l’unschooling costituisce una valida opzione.
Penso al contrario che, lontani dai test standardizzati e dalle rigide tappe dell’istruzione scolastica, abbiano l’opportunità di seguire le loro passioni più autentiche, di dare libero sfogo alla loro creatività e di fiorire in tutta la loro originalità. L’esame di prima media in ogni caso è un esame di Stato ed è obbligatorio; quando sarà ora di affrontare le superiori, spero che ci arriveranno con una maggiore maturità e consapevolezza e potranno decidere se frequentare o meno. In Italia del resto si può anche passare l’esame di maturità da privatisti. Trovo significativo comunque che alcune tra le migliori università a livello internazionale tra cui Massachusetts Institute of Technology, Harvard, Stanford e Duke University negli Stati Uniti reclutino attivamente giovani tra gli homeschoolers, perché ne riconoscono e apprezzano la forte motivazione e il pensiero laterale.
L’unlearning riguarda la nostra capacità di riconoscere i modelli mentali sulla cui base operiamo, di decidere se sono adeguati o no alle sfide che ci troviamo davanti e di costruircene di nuovi, se necessario. Mi verrebbe da dire che un genitore che voglia scegliere l’unschooling per i propri figli deve passare attraverso un processo di unlearning, ossia di rimessa in discussione radicale del proprio modo di pensare e vedere, prima di tutto il proprio modo di vedere l’apprendimento. Come Albert Einstein ha detto una volta: «Non possiamo risolvere i nostri problemi con lo stesso modo di pensare che abbiamo usato quando li abbiamo creati».
1. Paolo Mottana è docente di filosofia dell’educazione all’Università Milano Bicocca e uno dei membri fondatori di Tutta un’altra scuola – www.tuttaunaltrascuola.it
IL LIBRO
Queste domande nascono spontanee quando si affronta il tema dell’unschooling, e il libro che avete tra le mani cerca di fornire le risposte a partire dall’esperienza di chi ha fatto questa scelta per i propri figli.
L’apprendimento spontaneo in un ambiente familiare e sociale incoraggiante e ricco di stimoli, costituisce un valido percorso di istruzione, anzi di autoistruzione, in grado di sostituire quello scolastico. I bambini semplicemente continuano, come hanno fatto in millenni di evoluzione, a imparare da soli: sono biologicamente programmati per farlo e non ne possono fare a meno.
Le numerose esperienze di unschooling sparse per il mondo ci dimostrano che i bambini, anche senza un programma didattico prestabilito e imposto dall’esterno, sviluppano con successo le loro capacità in autonomia, seguendo i propri ritmi.
Rifacendosi a un nutrito corpus di studi sull’apprendimento, le neuroscienze e la psicologia dell’età evolutiva, questo libro racconta come e perché adottare l’unschooling, riportando con decisione al centro del dibattito sull’educazione i legittimi protagonisti: i bambini.