L’educazione diffusa: dalla teoria alla pratica
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Assolutamente rivoluzionario perché mira a mutare non solo il disegno delle pratiche scolastiche all’interno della scuola ma anche il profilo dell’educazione dei bambini e dei ragazzi all’interno dell’intero corpo sociale.
Si tratta di portare gradatamente bambini e ragazzi a vivere esperienzialmente la loro formazione nel mondo, a contatto con situazioni di tutti i generi in cui coinvolgere gli adulti ma anche altri giovani e ragazzi che vi operano e non solo insegnanti ed educatori. Una rivoluzione che tocca gradualmente il modo di vivere di tutta la società che dovrà finalmente riconoscere i minori non più come inabili in attesa di poter partecipare alla vita del mondo ma come partner, collaboratori, soggetti a pieno titolo capaci di offrire il proprio specifico contributo e a vivere appieno la propria cittadinanza.
Al momento passare alla pratica significa far partire esperienze pilota, sia nel pubblico che nel privato.
Concretamente occorre individuare un gruppo «scolastico» composto da allievi, genitori e insegnanti (e dirigente, nel caso sia in una scuola pubblica), disposto a realizzarlo. Sul piano didattico non è complicato perché abbiamo verificato che una programmazione di educazione diffusa non necessita di uno statuto alternativo a quello già possibile nell’ambito della normativa vigente. Si tratta soltanto di modificare il curricolo e di costruire un’équipe didattica nella quale l’orario di alcune figure è raddoppiato e si preveda una presenza stabile di uno o due educatori. Naturalmente occorre quanto più possibile coinvolgere gli attori territoriali pubblici e privati (da musei e biblioteche e centri sportivi a cooperative, associazioni e aziende e esercizi privati) e costruire una mappa di tutte le risorse utilizzabili per esperienze anche più libere e creative (edifici o porzioni di territorio da riutilizzare o abbandonati che possano essere impiegati allo scopo).
I confini idealmente non esistono. Noi ipotizziamo che i soggetti in formazione man mano che crescono si rendano autonomi al punto da poter programmare molti dei loro passi educativi dove meglio ritengano (per esempio per proseguire la loro istruzione musicale o coreutica o meccanica o altro, presso sedi che ritengano più opportune). Ovviamente l’autonomia è in funzione di capacità che vengono sperimentate via via a contatto con le più diverse realtà e che devono essere monitorate da chi segue il percorso con funzioni di coordinamento e supervisione.
Le regole dell’educazione diffusa sono del tutto contestuali. Ogni contesto esperienziale ha le sue regole che tuttavia devono essere discusse e adattate agli obiettivi generali dell’educazione gaia e diffusa, come amo definirla. Naturalmente non ci nascondiamo che alcuni saperi potranno non essere del tutto apprendibili attraverso situazioni esperienziali e per questo abbiamo ipotizzato laboratori da affiancare per poter acquisire determinate conoscenze o abilità utili anche per poter seguire percorsi successivi o prove che singoli o gruppi decidano di affrontare. Da questo punto di vista non scompariranno del tutto momenti di frontalità didattica, ma saranno ristretti al massimo e finalizzati strettamente a obiettivi riconoscibili e sensati e condivisi con gli allievi.
I ragazzi impareranno, finalmente: questo si potrebbe rispondere. Perché soltanto in contesti ad alto tasso di coinvolgimento e di motivazione si può ottenere un autentico apprendimento. E i contesti il più possibile reali dell’educazione gaia e diffusa, predisposti per un apprendimento autentico e progressivo, sono assolutamente motivanti e coinvolgenti. Anche perché le esperienze verranno modulate con grande attenzione nei riguardi di preferenze e attitudini personali dei soggetti in formazione. Tutto questo nella scuola è pressoché inesistente e la qualità dell’apprendimento infatti è molto scadente.
Sul fronte della programmazione abbiamo diversi gruppi che si stanno muovendo nel solco della proposta dell’educazione diffusa e con differenti fasce d’età. Concretamente stiamo operando in alcune scuole milanesi secondarie di primo grado, in particolare l’Istituto Capponi; nei Quartieri spagnoli di Napoli da due anni con una sperimentazione sostenuta dalla Fondazione Foqus; nella scuola diffusa presso la Naba di Milano con studenti di livello universitario; nella scuola parentale per ragazzi della secondaria inferiore di Gubbio partita quest’anno. Teniamo conto che la proposta nella sua formulazione più compiuta è nata solo nel 2017.
Potenzialmente, ma credo molto concretamente, un allievo di educazione diffusa sarà anzitutto un cittadino presente nel mondo, vivacemente impegnato a viverlo, sperimentarlo, conoscerlo, modificarlo e quindi acquisirà gradi di autonomia, di competenza e di maturità infinitamente superiori a chi resta rinchiuso per anni in uno spazio profondamente separato dalla realtà sociale e culturale del suo mondo. Inoltre credo che sarà molto più soddisfatto, appassionato e più in grado di riconoscere i suoi talenti e di metterli alla prova nei più diversi settori della vita. Forse, ed è ciò che ci auguriamo, sarà finalmente un bambino o un ragazzo felice a differenza degli alunni «convenzionali», chiusi nelle scuole i quali, con fin troppa evidenza, appaiono afflitti da una inevitabile sindrome di apatia, depressione e demotivazione.
Che possano uscire dalle scuole e vivere alla luce del sole e a contatto con gli elementi, che possano godere quante più esperienze è possibile secondo i loro desideri e le loro attitudini, accanto a ogni genere di adulti e di soggetti di ogni età e condizione, purché questi ultimi sappiano vederli, comprenderli, ascoltarli. E sappiano essere davvero capaci di aiutarli a crescere senza perseguitarli con inutili sistemi disciplinari, con l’immobilizzazione fisica e emotiva, con i voti, i compiti e le sanzioni che purtroppo la struttura carceraria delle scuole non può permettersi di non avere.