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L’uomo che semina gli alberi

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Incontro con il contadino africano Yacouba Sawadogo, conosciuto come l’uomo che piantava gli alberi, nella sua lotta quotidiana contro il deserto.

L’uomo che semina gli alberi

Burkina Faso, Sahel Africa dell’Ovest, gennaio 2012

Lascio il villaggio di Koubri, 25 chilometri a sud di Ouagadougou, sul motorino Yamaha blu di Bayiri, un amico burkinabé. Porto con me uno zaino, un sacco a pelo e un articolo della rivista Geo datato 2008. Su quel pezzo di carta lucida vecchio di quattro anni si narra la storia di Yacouba Sawadogo, l’uomo che ferma il deserto. Finalmente il mio settimo viaggio nel «paese degli uomini integri» porta con sé l’occasione di conoscere quest’uomo.
5000 chilometri e decine di anni separano il quotidiano lavoro di questo contadino africano da quello di Elzéard Bouffier e la sua storia, scritta da Jean Giono nel suo celebre racconto L’uomo che piantava gli alberi1: tanto lontani nello spazio e nel tempo, eppure tanto vicini nei pensieri e nelle azioni.
La direzione del viaggio è Nord, verso il Sahel, dove la sabbia del Sahara trasportata dall’Harmattan, il vento del deserto, vince la sua quotidiana guerra contro un popolo di contadini e pastori che instancabilmente cercano di resistervi.
Il motorino scivola lento sulla linea retta d’asfalto che porta alla capitale e al suo ordinato caos. Nel labirinto di moto e biciclette, auto e carretti, riusciamo a raggiungere la stazione degli autobus e, con puntualità svizzera, partiamo. 180 chilometri e tre ore dopo, mettiamo piede a Ouahigouya, grande città del Nord del Burkina Faso e base di molte ong che lavorano contro la desertificazione. Il pomeriggio  trascorre visitando il Groupement Naam, una struttura di appoggio ai contadini africani presente in tutta l’Africa dell’Ovest.
Conosciamo le donne che producono saponi e burro di karité, i ragazzi della falegnameria e dell’officina, gli speaker della radio Voix des paysans e chi si occupa di accogliere e alloggiare i visitatori. Ascoltiamo la stanca voce di Bernard Ouadraogo, ottantenne fondatore del Groupement, e quella diplomatica del segretario generale Hamidou, mentre approfondiscono tutta una serie di tematiche: problemi dei contadini burkinabè, emigrazione, cooperazione e accaparramento delle terre, lotta contro la desertificazione, formazione, politica, orticoltura ecc.
Fuori l’orizzonte sabbioso si tinge di sfumature di rosso, la luna prende il posto del sole e la notte cala rapidamente. Il freddo del mattino lo scacciamo con un caffè solubile bevuto in un chiosco, mentre con il proprietario discutiamo di urbanizzazione. Ma la strada per Gourga, villaggio natale di Yacouba Sawadogo, ci chiama e solo una gomma sgonfia del motorino ritarda la nostra risposta. Il giovane meccanico che troviamo sul bordo della strada la ripara rapidamente, mentre intorno a noi la città brulica di persone indaffarate.
Ripartiamo, mentre ai nostri lati il paesaggio cambia: l’asfalto diventa una pista di terra rossa e le case si trasformano in spogli alberi spinosi. Le informazioni raccolte lungo la strada ci conducono rapidamente alla casa di Yacouba dove scopriamo, dalla voce di una donna, che è appena partito nella brousse. Sui muri scrostati della sua abitazione troviamo il suo numero di telefono scritto in grandi cifre arancioni. Accanto, i volantini in bianco e nero della presentazione del film dedicato alla sua storia, The man who stopped the desert (L’uomo che fermò il deserto)2. Lo chiamiamo e dopo cinque minuti il rumore di una moto annuncia il suo arrivo. È un uomo anziano con il viso solcato da rughe, gli occhi stretti e la barba bianca. Ci sorride. Lo salutiamo in morè (lingua parlata dall’etnia mossì) e gli chiediamo com’è andata l’annata. Ci risponde che quest’anno non ha coltivato: sapeva che non sarebbe caduta abbastanza pioggia. Ci sediamo e gli spieghiamo il motivo della nostra visita: conoscerlo e vedere con i nostri occhi il suo lavoro. Ci ringrazia calorosamente e ci invita a visitare la sua foresta. Così seguiamo la sua tunica marrone salire sulla motocicletta e perdersi nella brousse. Sarà una visita di due ore, intramezzata da numerose soste nelle quali ci racconterà con passione il lavoro che ha fatto e sta continuando a fare da trentasette anni sui venticinque ettari di terreno della sua famiglia.
Quello che si presenta davanti ai miei occhi alla prima sosta mi sorprende: una foresta rompe la monotonia della savana. Yacouba scende dalla moto e ci mostra come ha trasformato il compatto suolo del Sahel in un ecosistema pieno di vita. Mi addentro insieme a lui nell’intreccio di rami e arbusti, tra nidi di uccelli e qualche farfalla. Tutto questo è stato creato solo con il suo lavoro, riscoprendo l’antica tecnica della zai, andata perduta nel corso della storia. Questa tecnica consiste nello scavare buche nel terreno durante la stagione secca, per poi seminarvi all’inizio della stagione delle piogge. Yacouba ha scelto di utilizzare semi di alberi selvatici raccolti da lui stesso, che non hanno bisogno di essere irrigati, ma solamente protetti dagli animali.
Prima di ripartire ci mostra desolato i termini (piccoli blocchi di cemento) che il comune ha posato per lottizzare il suo terreno e dare parcelle di terra a chi vuole costruire una casa. «Vogliono sabotare il mio lavoro» ci dice in tono arrabbiato. La tappa successiva ci porta a un pozzo usato per abbeverare gli animali della foresta. Ogni mattina e ogni sera Yacouba pompa per loro l’acqua e getta sul terreno semi di miglio per sfamarli. Lì vicino una ong tedesca ha avviato con la sua collaborazione un progetto di apicoltura.
In questo luogo, all’ombra di un piccolo hangar di paglia, Yacouba ama riposarsi. Gli chiedo se sono tante le ong che lavorano con lui. La sua risposta è negativa: «La cooperazione non ama lavorare con le persone intelligenti» mi dice in tono sarcastico. Continuiamo fino a raggiungere il primo albero seminato. Gli chiedo cosa lo ha spinto a fare tutto questo, così racconta di quando faceva il commerciante e guadagnava parecchi soldi. Poi ha compreso che Dio ha messo al mondo l’uomo per avere cura della terra e da quel giorno ha lasciato il suo lavoro e ha iniziato a coltivare la foresta, mentre tutti gli davano del pazzo. Ora la gente ha cambiato idea e i contadini lo ascoltano e lo rispettano.
Saliamo su una collina mentre il vento anima gli alberi. Ci dice che vorrebbe aumentare l’estensione della foresta, ma non ha mezzi per farlo se non il suo duro lavoro quotidiano. Ci muoviamo ancora e Yacouba ci mostra delle giovani piantine protette da rami secchi e spinosi. Più in là i buchi scavati nel terreno nei giorni precedenti, dove seminerà piante medicinali con le quali curerà la gente, proprio di fronte a dove sorgerà un nuovo grande ospedale, cattedrale nel deserto voluta dal governo. Un’altra sfida per quest’uomo che non conosce il francese, parla morè e scrive solo in arabo.
La sua voce e i suoi occhi mi raccontano di altri progetti: la foresta da recintare per proteggerla, gli animali da allevarvi dentro e poi l’idea di trasformare questo posto in una scuola per tutti coloro che vogliono condividere con lui i suoi sogni e il suo sapere. Ritorniamo a casa e lo ringraziamo per la visita. Yacouba contraccambia i nostri saluti e ci chiede una sola cosa: raccontare la sua storia. Gli lascio le quattro pagine patinate in cui si parla di lui: a me non servono più ora che l’ho incontrato. Mentre Bayiri ingrana la marcia del nostro motorino mi volto a guardare indietro. Yacouba, ascia in spalla, risale in moto e si inoltra nella brousse. Noi invece ritorniamo a Ouahigouya e, dopo un pranzo veloce, prendiamo la strada per Ouagadougou.
Il pullman sobbalza mentre prendo appunti su questo incontro. Il paesaggio al di là del finestrino opaco scorre veloce. In testa mi rimane il pensiero di questo grande uomo che, senza pensare al proprio interesse, lavora ogni giorno per seminare un pezzo di deserto.

Articolo tratto dal mensile Terra Nuova Giugno 2012… Leggi il sommario completo.

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