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L’uragano e il tostapane che fa selfie

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Qualcuno è ancora convinto che tutto sia mercato, anche i beni ambientali e i valori legati all’ecologia.
L’ideologo del neoliberismo Milton Friedman sosteneva che i «valori ecologici» potessero benissimo trovare la loro collocazione «naturale» nel mercato, come qualsiasi altro bene di consumo per il quale c’era richiesta. Bastava dare loro il giusto prezzo e non sarebbe stato necessario null’altro; il mercato si sarebbe auto-regolato, auto-assestato, quasi che godesse di una sorta di divino ed interno equilibrio.
Ma poi anche Alan Greenspan ebbe a dire che «in questa teoria c’è una falla», come ricorda George Monbiot su The Guardian1.
La falla sta nel fatto che, ad esempio, gli uragani hanno dimostrato di non sottostare alle leggi di mercato, così come non vi sottostanno la plastica che soffoca gli oceani, la morìa delle api, la morte della barriera corallina o lo sterminio degli oranghi nel Borneo. Il mercato non ha potere su queste forze, così come non ha alcun potere l’esercito schierato con le armi per «combattere» l’uragano Irma in Florida. È semplicemente, sottolinea sempre Monbiot, lo strumento sbagliato, l’approccio sbagliato, il sistema sbagliato.
Ci sono due problemi intrinseci: il primo è che si vuole dare un valore economico a «beni» come la vita umana, la biodiversità, gli ecosistemi, che non possono essere rimborsati o compensati col e dal denaro; il
secondo è che si vogliono quantificare eventi e processi che non sono prevedibili con affidabilità e precisione.
Il collasso ambientale non procede per tappe ordinate.
L’emergenza climatica si comporta come una placca tettonica in un’area sismica: periodi di relativa stasi seguiti da improvvisi scuotimenti. Ogni tentativo di paragonare benefici e costi economici in tali casi sarebbe un esercizio di falsa precisione.
Eppure, malgrado tutte le evidenze che abbiamo sotto gli occhi, parlare di queste «falle» è ancora ritenuta blasfemia, perché la teoria non prevede un ruolo per il pensiero o l’azione politica. «Si suppone che il sistema operi non attraverso la deliberata azione umana, ma attraverso la scrittura automatica di una mano invisibile» sottolinea Monbiot. «La nostra scelta è confinata alla decisione su quali beni e servizi comprare. Ma anche questo è illusorio. Un sistema basato sulla crescita può sopravvivere solo se noi progressivamente perdiamo la capacità di formulare decisioni ragionate». Ecco cosa esige il sistema: che noi, dopo avere soddisfatto i nostri bisogni, soddisfiamo i nostri desideri, per poi continuare a comprare beni e servizi anche se non ci servono e non li vogliamo; ci vuole sottomessi al mercato che ci fa abbandonare le nostre facoltà scriminanti e ci vuole vedere soccombere all’impulso.
Oggi possiamo comprare un tostapane che fa i selfie, imprimendo l’immagine della vostra faccia sul pane che mangiate; oppure una birra per cani e vino per gatti; o ancora un dispositivo che vi manda un messaggio sul cellulare quando sta per finire la carta igienica; una spazzola che vi informa quando sbagliate a spazzolarvi i capelli… o altra «spazzatura» simile.
Siamo risucchiati in un ciclo compulsivo che vede e prevede solo il «consumo», dal quale dipende la continua crescita economica. Crescita economica e società dell’usa e getta non possono essere separate.
La distruzione dell’ambiente non è un sottoprodotto di questo sistema, ne è un elemento necessario, come spiega ancora Monbiot.
La crisi ambientale non è il risultato inevitabile del neoliberismo, ma del capitalismo in sé. Ma il contributo peculiare del neoliberismo sta nel negare che sia necessaria l’azione, sta nell’insistere sul mito del mercato che si auto-regola, mentre ciò non fa che accelerare la distruzione del Pianeta. La crisi ambientale ha bisogno di nuova etica, nuova politica e nuova economia.

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