Oggi il mercato alimentare è saturo dei cosiddetti ultra-processed foods, i cibi ultra lavorati.
Uno studio francese pubblicato sul British Medical Journal, condotto su 104.000 volontari, ha concluso che se aumenta il consumo abituale di questi cibi, aumenta significativamente anche il rischio di ammalarsi di cancro. E per cibo ultra-lavorato si intendono soft drink di ogni tipo, le merendine che mangiano i bambini, i cibi in scatola, i salumi, insomma gran parte dei cibi industriali che contengono sostanze chimiche in abbondanza.
Oggi, dal 25 al 50% della popolazione, secondo i paesi, mangia questi alimenti.
Non si salva nemmeno l’Italia, malgrado sia vista, nell’immaginario collettivo, come la patria del «buon» cibo.
Lo era in passato, su questo non vi è dubbio, quando si riuscivano a ricavare capolavori da ingredienti semplici: tutti i piatti tradizionali del Sud, per esempio, dalle orecchiette con le rape alla purea di fave con la cicoria, la pasta e fagioli, la pasta con le fave, poi tutti gli altri usi creativi, meravigliosi e di qualità che si facevano dei legumi e delle verdure. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso il grano era macinato a pietra, quindi non si riusciva a ottenere la farina 00 che invade oggi i supermercati.
C’era anche la farina bianca, perché setacciata, ma di fatto si mangiavano cereali prevalentemente non raffinati. Il dessert era costituito prevalentemente dalla frutta, fresca o a guscio.
Oggi questa alimentazione tradizionale è solo un ricordo, mentre invece si mangia quotidianamente quello che prima si metteva in tavola solo il giorno della festa.
In Sardegna e in Calabria, nelle aree dove si contano più centenari, la carne era una rarità e, a un’alimentazione su base vegetale, si affiancavano una vita fisicamente attiva e all’aria aperta, un ambiente meno inquinato, relazioni familiari e sociali improntate alla solidarietà, che nutrivano anche l’anima. Era questa la dimensione mediterranea della salute, a partire dal cibo e dagli stili di vita. E non mancavano certo i grassi, ma erano grassi di qualità, cioè quelli dell’olio di oliva.
Dobbiamo renderci conto che è la biodiversità, e quindi la varietà, a garantirci una nutrizione sana e completa.
Quando mangiamo, ingeriamo qualcosa come 20-30.000 sostanze, che hanno un effetto sulla nostra fisiologia e sul nostro metabolismo; non possiamo assolutamente pensare di catturare queste sostanze, in una pillola preventiva.
E facciamo in modo di sottrarre i bambini al grande business di Big food. Facciamo in modo che in casa non trovino cibo spazzatura ma cibo vero e sano, un cibo che mangeranno per garantirsi salute presente e futura. Non v’è dubbio alcuno: è questa la strada. Riprendiamo, dunque, in mano le redini della salute nostra e dei nostri figli; sarà il nostro più grande atto d’amore.
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PER SAPERNE DI PIÙ
Una vera rivoluzione oggi può e deve partire dalla produzione del cibo, un grande campo di azione dove il sistema agroalimentare globalizzato ha cancellato la biodiversità, avvelenato il suolo e reso la nostra dieta sempre più omologata e insostenibile.
Il cambio di paradigma si impone anzitutto nella produzione agricola e nella salvaguardia dell’ambiente, da cui dipende il mantenimento degli ecosistemi e della salute dell’uomo. Gli autori del libro, tra cui spiccano le figure di Vandana Shiva e Franco Berrino, tracciano un’inversione di rotta a cominciare dal nostro stile di vita: bisogna dire sì ai sistemi agricoli naturali su piccola scala, per recuperare la vitalità del cibo e garantire un accesso più democratico alle risorse della terra. E bisogna dire no all’avanzata di un modello produttivo basato sullo sfruttamento dei popoli e degli ecosistemi.
In gioco c’è la nostra salute e la sopravvivenza pacifica sul pianeta Terra.
Il libro contiene, in appendice, il Manifesto “FOOD for HEALTH”, un accorato appello alla resistenza alimentare sottoscritto da Vandana Shiva e altri undici esperti a livello internazionale.