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La farina più dolce vien dal bosco

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Tutto quello che avremmo voluto sapere sulla farina di castagne e che abbiamo osato chiedere. Due storie di giovani tornati ai boschi della Lunigiana.
La farina più dolce vien dal bosco
Ci sono vite che seguono traiettorie oblique, impervie. A un certo punto c’è uno scarto, ci si incuriosisce, si segue un profumo, una fascinazione e subito la strada porta altrove. Prendi la storia di Fabio, o quella di Alessandro, uno studiava sociologia, l’altro gareggiava con la mountain bike e arrampicava in parete: oggi, al centro delle loro esistenze ci sono le castagne, gli essiccatoi, la farina e un’antica tradizione che si rinnova attraverso la loro dedizione. Vivono in Lunigiana, una regione all’estremo nord della Toscana, un po’ eremo e un po’ crocevia.
La città di Luni, fondata dai romani nel 177 a.C., dalla quale prende il nome, beneficia dell’ultimo tratto del Magra, un corso d’acqua che attraversa valli incastrate tra montagne ricchissime di vegetazione: alberi che respirano aria buona, umida di mare e di vento, forse è per questo che qui le castagne sono così buone.

Alessandro, stregato dalla lun… igiana

Alessandro Cagnasso è di Parma, ma adesso vive in una minuscola frazione di Casola (Ms), nella Lunigiana profonda, dove anche in casa si respira il bosco perché le cucine a legna sono ancora in attività, come gli essiccatoi.
Fazzano è un borgo di poche costruzioni in pietra arenaria. Al momento ci vivono sette persone, tutte in là con gli anni, e per arrivarci è tutto uno scalar di marcia. Nel 2006 Alessandro aveva trent’anni e una lunga vita davanti: veniva dal Trentino dove lo aveva portato lo sport. Lì aveva aperto una scuola di mountain bike, tanta socialità, tanta gioventù, una vita invidiabile. Ma da sempre è attratto dai piani inclinati, e anche i castagni sono stati una sfida verticale. «Un amico mi chiese di venire ad arrampicare. In un paio di giorni mi innamorai del posto. Un po’ per gioco ci siamo messi a imparare a fare la farina di castagne col metodo antico, perché un suo zio avrebbe potuto insegnarci. Siamo partiti insieme, cercando un essiccatoio, trovandolo in comodato gratuito, rifacendo il tetto. Quell’anno per l’appunto i raccoglitori della zona venivano pagati troppo poco, perché l’azienda che comprava castagne per uso industriale abbassò il prezzo e loro, piuttosto che svenderle, le buttavano nei canali. Noi abbiamo offerto un prezzo equo e in quindici giorni ci hanno portato 80 quintali di castagne. Quell’anno producemmo 20 quintali di farina. Era il 2006, un risultato che non si è più ripetuto. L’arte dell’essiccazione me l’hanno insegnata due anziani del paesello, che purtroppo oggi non ci sono più».
Passeggiamo nel suo castagneto: sembra tenuto benissimo, è molto pulito, ma lui dice che non basta, che dovrebbe essere come un campo da golf. A terra è pieno di castagne che si affacciano timide da dentro l’achenio, quella specie di riccio spinoso che le protegge: ora i castagni stanno bene, ma anni fa, tra il 2009 e il 2010 era arrivata in Italia una vespa, il cinipide del castagno, importata da oriente, che ha quasi azzerato la produzione. Poi il sistema si è difeso: si sono attivati gli antagonisti che hanno riequilibrato la situazione. «La peggiore malattia però è l’incuria umana, perché i castagni andrebbero curati e potati, come gli ulivi, ma i boschi sono stati abbandonati: c’è un enorme potenziale, ma le castagne rimangono in terra per le specie selvatiche che se ne nutrono».
Dicono che succede una volta nella vita, di bruciare l’essiccatoio con tutta la produzione dentro, e a lui è successo dopo che per tredici anni gli era andata bene. Era il 30 ottobre scorso. Per fortuna Alessandro ha capito il suo errore, altrimenti oggi non riuscirebbe più a dormire nel periodo in cui l’essiccatoio è in attività: quella volta mise sul fuoco il pezzo di legno sbagliato e non rimase ad accertarsi che le fiamme si stabilizzassero. Così, per un errore, ha pagato il rischio tutto in una volta, perdendo l’essiccatoio, la produzione e l’annata.
Nella disperazione è arrivata la salvezza: l’idea di attivare un crowdfunding. La risposta è stata sorprendente: grazie alla raccolta fondi è riuscito a rimborsare tutti i raccoglitori e ha pagato il nuovo essiccatoio. «È stato oro» dice. E dalle istituzioni? Nessun aiuto materiale, solo una telefonata di solidarietà da parte del sindaco. L’aiuto concreto è arrivato prima di tutto da un altro produttore, Nello, che ha un essiccatoio a Ugliancaldo (Ms) e che da vero amico gli ha permesso di essiccare le castagne che aveva salvato. Poi ci sono stati i Gruppi di acquisto solidale (Gas), e Alessandro ci tiene a menzionarli: il Gruppo Grano di Castelnuovo Magra (un’associazione che ha ricostituito la filiera dei grani antichi); il Gas Indiosca, sempre di Castelnuovo Magra (Sp); il Gas di Livorno, che è un consorzio di tanti Gas diversi. Un bel sostegno l’ha avuto anche dall’Associazione Critical Wine di Genova e da La Terra Trema di Milano, organizzazioni di mercati enogastronomici, contadini e artigianali, dove Alessandro porta i suoi prodotti e la sua abilità nel cucinare i cian, detti anche ciacci o necci, quelle crepes di farina di castagne che solitamente vengono servite arrotolate attorno a un cuore di ricotta. Sono i cibi che hanno sfamato generazioni di persone povere, sopravvissute alla guerra e alla miseria grazie al frutto miracoloso che nutriva e faceva vivere, almeno fino al giorno dopo.
Poi ci sono i fratelli, Stefano e Luca. Sì, perché Alessandro viene da una famiglia dove ci si dà volentieri una mano quando c’è bisogno. I genitori, laureati in chimica, hanno sempre sostenuto i tre figli quando inseguivano i loro sogni. Rivoltare le castagne che essiccano o la battitura, per Alessandro sarebbero operazioni insostenibili da solo, così: «Arrivano i nostri!», sempre presenti, assieme a qualche altro amico, anche quando c’è da partire per andare a cucinare i necci fuori sede.
Dopo la camminata nel bosco Alessandro esaudisce un mio sogno antico, permettendomi di nuotare, letteralmente, tra le castagne ad essiccare: lo facevo da piccola ed è un’emozione che non si dimentica. Poi ci accoccoliamo accanto al fuoco e, dopo esserci goduti, in un silenzio quasi meditativo, il calore, il profumo e il torpore, ci si mette a parlare. La parola viene da sé, forse perché anche le ritrosie si sciolgono a quel tepore, e probabilmente è così che funzionava la capanna sudatoria degli antichi nativi. Si parla di Covid, di operai licenziati con una email. Poi si rientra a casa ed esce il prezioso ultimo sacchetto di farina dell’anno prima: quella nuova arriverà a dicembre e quel poco che resta non si vende, ma si può assaggiare, così mi allunga un cucchiaio. Sembra borotalco, è impalpabile e questo aspetto è di fondamentale importanza. In bocca è dolcissima, la più buona che io abbia mai assaggiato. Colgo un’espressione beffarda, come a dire: «Ti potrei dare qualsiasi cosa e non capiresti».

Alle fiere, acquistando la sua farina, gli chiedono quanto zucchero aggiungere per fare il castagnaccio, e lui lì a ripetere che la bontà dipende dalla qualità della farina. Lo zucchero serve per coprire l’amaro delle farine industriali della grande distribuzione, ma a quel punto non è più «il castagnaccio», quella cosa semplice e genuina che per farla buona basta la farina, l’acqua, il rosmarino e pochissimo altro.

Ma perché le farine di castagne industriali sono amare? Perché il super-guadagno vogliono farlo prima di vendere la farina. Prima tolgono le castagne con la pezzatura migliore e le vendono intere, poi seccano tutto il resto. Dopo tolgono le castagne secche più belle, per venderle da sole: servono per varie preparazioni, per esempio adesso vanno molto di moda le mollane, castagne secche un po’ molli, piacevoli da mangiare. Dopo tutte queste sottrazioni, macinano. Ma la farina che esce è di terza, quarta, quinta scelta, perché le castagne rimaste non sono quelle di buona qualità.
Nel gennaio 2017 la farina dolce de La Bucolika di Fazzano di Alessandro è stata premiata come migliore farina di castagne del Parco dell’Appennino Tosco Emiliano, al concorso Dolce e Farina indetto dallo stesso parco nazionale. Nel 2019, allo stesso concorso, è arrivata seconda, e sempre nel 2019 ha vinto il primo premio nazionale della farina di castagne, che si svolge ogni anno in Maremma.
Un aspetto che concorre non poco a determinare la qualità della farina è il mulino. Alessandro ne ha scelto uno ad acqua che si trova a Valico, in provincia di Lucca, che ha quattro macine in pietra per le castagne e una per il mais, per cui la sua farina non contiene glutine, nemmeno in tracce.

La storia di Fabio e il messaggio della Marocca

Quella della Marocca di Casola è un’altra storia che nasce nella terra umida di montagna, tra le micorrize di piante semplici, e arriva fino a noi grazie a un cantore, innamorato e testardo, che di mestiere fa il fornaio. Si chiama Fabio Bertolucci ed è cresciuto a Casola, in Lunigiana. Lo trovo intorno alle sette di sera nel suo forno in Canoàra, sopra a Casola. Sono in ritardo, ma Fabio deve ancora sfornare e il profumo è indescrivibile. Aveva vent’anni quando ha deciso di interrompere gli studi; faceva sociologia a Pisa perché voleva cambiare il mondo, poi ha sentito forte l’esigenza di cambiarlo attraverso un’azione concreta, riportando energie giovani al paese che si stava spopolando, ed è rientrato. Due anziani stavano per lasciare un vecchio forno perché non ce la facevano più a gestirlo e ci tenevano a tramandare a un giovane l’antica ricetta della Marocca, un pane antico che racconta la cucina dei poveri costretti a fare di ragion virtù. È stata una fortuna reciproca, commenta Fabio. Oggi si dice win-win.
Nella Marocca si mescolano ingredienti umili: castagne dal bosco, patate dalla montagna, grano dalla valle e sale da quel mare di cui parlavano i pastori transumanti. Appena sfornata è fragrante e divina, un marron glacé senza tutto quello zucchero che stucca. Il nome sembra derivare dal termine dialettale marocat, cioè «molto compatto», perché rispetto al pane di grano è effettivamente più denso. Si conserva benissimo fino a dieci giorni e lo gusti così com’è, con un filo d’olio, con la marmellata… qui consigliano i formaggi saporiti.
Dieci anni fa, il lavoro aumentava e lo spazio cominciava a scarseggiare, così la famiglia si è «compattata». I genitori hanno fatto un prestito a fondo perduto e tra mutui e leasing Fabio ha potuto costruire il forno in Canoàra, quello in cui siamo adesso, nuovo e moderno. Ancora una volta la famiglia che incoraggia e sostiene… Dopo varie sperimentazioni oggi Fabio si concentra sulla Marocca, organizzandosi con persone che partecipano alle fiere, esperienze commerciali ad alto tasso di relazione. Fornisce anche qualche esercizio al dettaglio, ma con parsimonia, perché oltre a essere antieconomici questi canali sono frequentati da consumatori frettolosi che non cercano di capire, e invece la Marocca va capita.
Dopo gli anziani ai quali è subentrato, si è scelto due maestri per perfezionarsi. Uno si chiama Pasquino Tarantola e faceva il fornaio a Pontremoli. Non aveva mai visto una persona così appassionata del suo mestiere, avrebbe potuto telefonargli per un consiglio a qualsiasi ora del giorno e della notte. Oggi ha un’ottantina di anni. Con lui, dopo molti tentativi, Fabio ha messo a punto la ricetta giusta per far lievitare la Marocca, che essendo poverissima di glutine fa fatica ad alzarsi. «Per spingerla su devi fare la sua pasta madre, la biga, quattordici o anche venti ore prima».
Il secondo maestro è Piergiorgio Giorilli, conosciutissimo per i suoi libri sulla panificazione, a cui fanno riferimento tanti fornai: perché un conto è la tradizione e un altro è capire temperature e percentuali di proteine. Sul libro Panificando, che per Fabio è la bibbia, mi mostra fiero la dedica del maestro, che risale a quando andava fino a Parma per imparare.
Gli chiedo cosa deve fare un gruppo di acquisto per avere le Marocche e mi risponde che può spedirle confezionate sottovuoto, in modo che durino di più. Basta cercare su Facebook «La Marocca di Casola e il forno in Canoàra».
Mentre parla, Fabio sta sfornando i suoi gioielli scuri: è il momento in cui capisci che la Marocca è un prodotto artigianale. Le toglie una a una dal forno a legna, buio e profondo, scegliendo le pagnotte che ritiene siano cotte a seconda della distanza dal fuoco e del tipo di mattone su cui poggiano. Ci vuole mestiere. Una breve spazzolata sotto, per togliere eventuali residui di cenere, poi giù nei cestoni.
Le fissa scrutando nel forno buio e dice: «Io le adoro, sono fantastiche quelle pagnotte lì. Però non voglio propormi come quello che ha salvato il prodotto, non è che non sia vero, ma mi sento più uno strumento nelle sue mani. La Marocca è più grande di me, esisteva prima, esisterà dopo. Dobbiamo voler bene al territorio in cui viviamo, è questo, credo, il messaggio della Marocca».
Alessandro e Fabio hanno in comune il territorio, l’alimento, il coraggio e la dedizione. C’è bisogno di far conoscere storie come queste perché rappresentano una speranza e anche un precedente: è possibile, è sostenibile, è evolutivo. E speriamo che sia seminale.
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Articolo tratto dalla rubrica #Cibo ribelle: i protagonisti

Leggi la rubrica sul mensile Terra Nuova Febbraio 2022
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