Dal latino simplex, composto dalla radice sem (uno solo) e da plectere (piegare); quindi, letteralmente, piegato una sola volta, oppure da sin (sine plica), ovvero senza pieghe. Una persona semplice non è una persona tortuosa, racchiusa in cento involuzioni come un origami, non nasconde doppi fini, non è mossa da calcolo, non finge, è priva di affettazione, non è preoccupata della propria immagine o della propria reputazione, non ha troppe pretese, è sobria, vive in maniera frugale, è trasparente, naturale, non si dà arie di conoscere.
Semplicità d’animo, di cuore, indica un’attitudine che non ha nulla a che fare con l’incompetenza, la superficialità o la spontaneità senza discernimento. […] Semplicità è essere liberi dagli ostacoli che impediscono di ricercare ciò che è realmente importante e rischia di essere perso di vista. […]
Nel Medioevo i Semplici erano varietà vegetali con virtù medicamentose che venivano coltivate nei monasteri, nel «giardino dei semplici», erbe medicinali con la signatura di Paracelso e di santa Ildegarda, i segni che Dio aveva voluto mettere nelle piante. Semplici, perché i doni di Dio non sono nascosti: ogni pianta porta un segno simile agli organi del corpo o alle sue malattie per trovarne il rimedio per analogia. Il tarassaco è giallo per curare l’ittero, la barbabietola rossa per curare le anemie, l’iris viola per curare le contusioni, la melagrana serve per irrobustire i denti nei loro alveoli, la coda cavallina per le vertebre, il fico per la fertilità maschile. Molte di queste segnature sono state confermate da studi scientifici.
Scegliere la via più semplice non significa scegliere quella più facile. «È molto semplice essere felici, ma è molto difficile essere semplici», ricorda Rabindranath Tagore. San Francesco insegnava «a camminare rettamente e con passo fermo sulla via della santa povertà e della beata semplicità». Per Francesco semplicità è impegnativo cammino di ricerca di ciò che è essenziale nell’esistenza. Semplicità si incontra con l’umiltà, che viene da humus, con la sobrietà, ma con la consapevolezza di partecipare a una vita più grande di cui respirare l’ampiezza. La semplicità è attitudine di chi non ha bisogno di troppe cose e non ne diventa schiavo, di chi sa godere delle piccole cose, riconoscerne la bellezza e l’utilità concedendosi la leggerezza di liberarsi dal superfluo, da ciò che appesantisce e impedisce di volare. […]
Accontentarsi di poco non significa non fare niente, non avere ambizioni, entusiasmo. Vuol dire solo riorientare l’ambizione verso il nostro vero obiettivo: il nostro, non gli obiettivi della civiltà dei consumi. Vivere parvo, vivere con poco, veniva raccomandato anche dai maestri della macrobiotica (George Ohsawa, René Lévy): cibo semplice da cucinare da sé, con una varietà di cereali non raffinati, legumi, verdura e frutta, come l’uomo ha sempre mangiato prima dell’invasione incontrastata nella quotidianità delle carni e dei prodotti artificiali dell’industria alimentare. […]
La civiltà dell’Occidente, «del paese del tramonto», civiltà di spettacolo, di distrazione, di consumi, di abbondanza di cose inutili, di burocrazia e altre complessità, fa sentire forse in modo più acuto il bisogno di infinito, di ritorno all’essenziale, di semplificazione della vita, nel rapporto con noi stessi, nella relazione con gli altri, nel nostro modo di pensare e considerare la realtà.
Come ci ricorda Lao Tzu, la gentilezza d’animo, la morbidezza dei modi, la tenerezza, sorelle della gratitudine, sono qualità che portano il sorriso della vita nelle nostre giornate. Coltiviamole.
«Quando nasce, l’uomo è tenero e debole, quando muore è duro e rigido. I diecimila esseri, piante e alberi, durante la vita sono teneri e fragili, quando muoiono sono secchi e appassiti. Perché ciò che è duro e rigido è servo della morte, ciò che è tenero e debole è servo della vita».
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Articolo tratto dalla rubrica
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