Parla con me
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Parla con me
Direi comunicazione integrata, nel senso di tenere conto della dualità: infatti mette insieme fattori razionali e irrazionali; il pensiero cosiddetto diurno, proteso al fare e al mostrarsi, e quello notturno, focalizzato sul rimuginare e fantasticare. Osservando le persone nei contesti più disparati si ha spesso l’impressione di un dialogo fra sordi.
Per certi versi sì, sicuramente. Per quanto egocentrici, siamo fatti per stare in relazione e ne abbiamo bisogno sia dal punto di vista genetico che culturale. Tuttavia sul palcoscenico dell’interazione siamo troppo abituati al monologo. Da una parte quindi abbiamo questa propensione, dall’altra il ritiro e la diseducazione alla cultura di gruppo, all’alterità.
Solitamente no. Ma la mancanza di consapevolezza è essenzialmente legata all’assenza di un metro migliorativo. E questo porta a un gioco che tende al ribasso, dentro un confine che ci autolimita, dove abbondano dicerie, luoghi comuni e concetti stereotipati.
A livello di principio, bisogna mettere subito in conto che in una relazione ci sono anche fattori che non vanno, incomprensioni fisiologiche che non possono essere negate. A livello pratico, invece, è necessario tenere conto della prospettiva dell’altro, in un’alternanza fra Io e Tu. Solitamente invece siamo concentrati troppo su noi stessi o troppo sull’altro. Il binomio Io-Tu è un’altra ecologia. Significa fare domande, in modo ponderato naturalmente, per prevenire fraintendimenti e stimolare il confronto, ed essere assertivi. Tutto questo non è certo automatico, ma qualcosa che possiamo imparare.
Innanzitutto il pendolarismo fra Io e Tu, perché permette di considerare entrambi i punti di vista dando lo stesso valore a noi e al nostro interlocutore. Continuerebbe con l’apprezzamento, una dote che di solito ci manca, perché consideriamo in modo disattento quello che abbiamo, ci apprezziamo troppo poco e al contempo poniamo poca attenzione agli aspetti costruttivi del comportamento altrui. Un altro strumento per la nostra cassetta è la critica costruttiva, perché è importante criticare senza di struggere, ovvero criticare il comportamento della persona e non la persona stessa; la critica va quindi contestualizzata, mirata a una precisa mancanza, evitando l’uso di avverbi generici come «sempre» e «mai». Tra gli strumenti essenziali c’è poi l’ascolto pieno, perché è necessario considerare anche la negatività di cui la persona è portatrice. In ogni caso è bene precisare che non ci sono ricette e soluzioni immediate, ma piuttosto la volontà di concentrarsi sulla relazione per lasciare spazio al sentire dell’altro. A questo proposito è buona norma utilizzare «parole-chiave», riprendendo il punto saliente del discorso dell’altro. Così facendo, «restituendo» la parola stessa, si mostra accoglienza e comprensione e si fa spazio alla rielaborazione e alla condivisione.
Chi usa la comunicazione ecologica ha la possibilità di modulare la propria apertura mentale e linguistica. A volte questo può portare anche alla decisione di lasciare il campo, perché non c’è spazio per proseguire o non è opportuno farlo. Comunicare in modo efficace significa, infatti, non solo aprirsi all’altro, ma anche sapersi proteggere. La positività non va preconizzata. Jerome Liss, psichiatra e fondatore della biosistemica, di cui sono stato allievo, diceva che è necessario lavorare sul ruolo della negatività, perché investire sulle risorse della convivenza significa lavorare sulla consapevolezza che il conflitto esiste e non si può eliminare, ma solo gestire, anche proteggendosi se serve.
È importante la presenza del facilitatore, estraneo alle dinamiche interne, potenzialmente o apertamente conflittuali, e capace di guidare il gruppo all’interno della loro trasformazione verso atteggiamenti costruttivi. In qualunque contesto ci troviamo, portiamo tutti nel mondo le nostre disfunzionalità, dissonanze e criticità, ognuno con propri atteggiamenti specifici; dobbiamo fare i conti con automatismi eccessivi, schematici e inadeguati se calati in semplici contrasti nel lavoro o a casa. Non si lavora dunque sul conflitto quanto sulla possibilità di trasformarlo.
Esistono due tipi di gestualità: quella involontaria e irrinunciabile, e un’altra che potremmo definire intenzionale. È bene essere consapevoli della prima e conoscere la seconda, perché gesticolare significa dare corpo ai pensieri. Tuttavia è importante non invadere lo spazio dell’altro, non infastidirlo con una gestualità che potrebbe risultare eccessiva.
Il pensiero è frutto della mente, che è individuale e relazionale. Dobbiamo quindi considerare il conflitto personale interiore fra ragione ed emozioni e allo stesso tempo le sollecitazioni dovute all’interazione con gli altri. È infatti la relazione che conforma i pensieri. Per migliorare la comunicazione è importante imparare a governare la mente in modo che non ci tenga in scacco, bisogna essere capaci di contenerla, ad esempio attraverso tecniche di concentrazione e respiro che favoriscano il contatto con se stessi qui e ora.
Non esiste un piano di perfezione, né una canonicità assoluta e rigorosa. La negatività è fisiologica, non si può eliminare ma anzi può diventare una risorsa, materia feconda, manifestazione più vitale rispetto alla positività, che a volte appiattisce gli scambi. Jerome Liss affermava che nel comportamento negativo c’è il germe del positivo. Quello che conta è imparare a integrare e unire, consapevoli delle forze che ci dividono e senza la pretesa di raggiungere un livello di perfezionismo impossibile che ci condurrebbe verso una rigidità o una caoticità eccessive, e a loro volta problematiche.
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