L’impegno per contenere le emissioni inquinanti e il riscaldamento globale è stato giudicato troppo oneroso dal presidente Trump, che ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, suscitando grande allarme in tutte le persone di buon senso. Le riflessioni del direttore di Terra Nuova nell’editoriale che apre il numero di Luglio-Agosto.
Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, annunciato lo scorso giugno da Donald Trump, ha suscitato grande allarme in tutte le persone di buon senso. Il rispetto degli impegni sottoscritti nel 2015 da 195 nazioni per ridurre il livello delle emissioni inquinanti e contenere il riscaldamento globale è stato ritenuto dal nuovo presidente Usa troppo costoso per le tasche degli americani.
Tanto è stato detto e tanto si dirà sulle ragioni politiche ed economiche di questa scelta.
Ma dalle parole di chi, come Trump, considera la salute del Pianeta un affare secondario, una sorta di ingenuità da filantropi, emerge una grave ignoranza di quelle che sono le ricadute sociali ed economiche del progressivo innalzamento delle temperature e, più in generale, dell’inquinamento. Quello che Trump non dice è che in gioco non c’è solo la sopravvivenza di qualche specie a rischio di estinzione o lo scioglimento di qualche ghiacciaio a bassa quota, ma qualcosa di molto più sostanziale.
Secondo uno studio condotto dalle università di Stanford e Berkeley, pubblicato su Nature, se il riscaldamento globale proseguirà ai livelli attuali, entro la fine del secolo ci saranno delle ripercussioni negative sull’economia di tre quarti del Pianeta. Usa compresi. Una contrazione del Pil valutata, a seconda degli scenari possibili, dal 15 al 23%.
Un altro effetto segnalato dai climatologi è il concreto ulteriore incremento delle emigrazioni di massa dai paesi del Sud del mondo verso i paesi più freddi e industrializzati, a causa dalle carestie generate dalle avverse condizioni climatiche.
C’è poi un altro aspetto che mister America first (Prima l’America) sembra ignorare: è molto probabile che l’aumento delle temperature, l’innalzamento del livello dei mari, la riduzione dello strato di ozono, l’aggravarsi dell’intensità di eventi meteorologici estremi, l’acidificazione degli oceani, l’estinzione massiva di specie animali e vegetali e tutte le altre conseguenze del riscaldamento globale saranno facilmente superate dall’ecosistema Terra.
Nella sua lunga storia, vecchia quattro miliardi di anni, la vita sul nostro Pianeta ha affrontato più volte fasi di glaciazione e surriscaldamento, impatti meteoritici ed eruzioni vulcaniche su larga scala, sopravvivendo sempre. La grande biodiversità che popola gli anfratti più profondi degli oceani e le vette più alte dell’Himalaya è una dimostrazione dell’elevata specializzazione delle forme di vita esistenti, che sono in grado di vivere nelle condizioni ambientali più estreme.
Assai differente è la capacità di risposta delle comunità umane, soprattutto di quelle più industrializzate. A causa della grave petrolio-dipendenza e della scarsa sostenibilità ambientale, gli insediamenti umani sono ecosistemi assai rigidi e a bassa resilienza, con tempi lunghissimi di adattamento in caso di profondi mutamenti delle condizioni ambientali.
Quello che Trump non dice è che, a correre il rischio maggiore, siamo proprio noi: dinosauri tecnologici dall’appetito vorace. Ecco perché, al di là degli slogan elettorali e delle frasi d’effetto, in una società globale e profondamente interconnessa come la nostra, Planet first (Prima il Pianeta) è l’unica prospettiva praticabile.